giovedì 7 aprile 2011

Gli Archivi di Stato di Terra di Bari

Gli Archivi di Stato di Terra di Bari
(Bari, Trani, Barletta)
a cura di
Giuseppe Dibenedetto
presentazione di
Gianfranco Liberati
Edizioni Grafisystem
2007
Riservato ogni diritto di riproduzione anche parziale dei testi senza l’autorizzazione dell’editore. Luglio 2007
Edito da: Edizioni GrafiSystem Copyright © GrafiSystem snc - Modugno – Bari ISBN 978-88-89979-05-1
Impaginazione e stampa: GrafiSystem snc 70026 Modugno - Bari (z.i.) C.da Macchia Lampone, A/3Tel. 080.5375408/76 Fax 080.5308771 www.grafisystem.it info@grafisystem.it - Volume di 609 pagine

PRESENTAZIONE

“…Nella filosofia che abbiamo delineata, la Realtà è affermata come Spirito, ma non già
tale che stia sopra il mondo o corra attraverso il mondo, sibbene che coincide col mondo…
Lo Spirito, che è il mondo, è lo Spirito che si svolge, e perciò uno e diverso insieme, eterna
soluzione ed eterno problema, e la sua autocoscienza è la filosofia che è la sua storia, o la
sua storia che è la sua filosofia, sostanzialmente identiche; e identica è la coscienza con
l’autocoscienza, cioè distinta e una insieme, come la vita e il pensiero…”: è una pagina
notissima di Benedetto Croce, l’ultima pagina di Teoria e storia della storiografia. Le conclusioni avevano già trovato conforto nell’opera dedicata da Friedrich Meinecke a Cosmopolitismo e stato nazionale, pubblicata nel 1911; ma la netta, orgogliosa, chiarezza, la concisa efficacia della forma non lasciavano tuttavia intuire le molte asperità di un lungo percorso.
La lettura della Teoria mi ha spesso indotto a soffermarmi, per forte propensione personale,
sulla seconda Appendice, dedicata all’Analogia e anomalia delle storie speciali: “…Nel corso delle precedenti dilucidazioni teoriche, abbiamo…fatto valere la…duplice sentenza: che la storia
è sempre particolare, ed è sempre speciale; e che queste due determinazioni costituiscono…
l’effettiva e concreta universalità e l’effettiva e concreta unità…”. Per comprendere la
“sentenza”, bisognava innanzitutto sfatare l’inveterato pregiudizio che voleva la storia
della filosofia – “continua”, e quindi “capace di una visione complessiva ed universale”
– oggetto privilegiato di trattazioni, appunto, universali; e considerava invece la storia
dell’arte – discontinua, e quindi vera “sequela di visioni particolari” – quale argomento
elettivo delle trattazioni monografiche. Bisognava, poi, dimostrare quanto fosse infondata
la richiesta ricorrente di una storia universale della scienza: “…Se ogni particolare problema
filosofico…si congiunge…con tutti gli altri problemi filosofici, ogni problema scientifico
tende a chiudersi in sé stesso…”. Ogni storia era, invece, “particolare”, perché determinata
dai problemi politici ed etici che – secondo i tempi ed i luoghi – si ponevano allo storico;
ogni storia, infatti, doveva “ripensarsi da capo di volta di volta”. La presunta anomalia doveva
ascriversi soltanto alla “indole peculiare” di ogni ricerca.
La storia della filosofia – scriveva Croce – aveva più volte “tentato di divorare la storia della poesia e dell’arte”; ed aveva compiuto un analogo tentativo anche con la storia “politica
ed etica”, con la storia sociale. Infatti, si riteneva comunemente che questa non si sarebbe
mai sollevata dall’ovvietà ripetitiva della mera cronaca senza lo studio delle “idee” che la
guidavano. L’originalità della storia politica ed etica nasceva invece proprio dal suo oggetto:
“…quel che con unico vocabolo si potrebbe designare come istituti; intendendo questa
parola in senso latissimo, ossia comprendendovi tutti gli atteggiamenti pratici degli individui
e delle società umane…: tutti del pari produzioni storiche appercepibili secondo la forma
pratica dello spirito”. D’altronde, il grande “patrimonio di giudizî”, che formava l’autentico
“capitale” iniziale di ogni ricerca, era – a sua volta – il prodotto di uno svolgimento secolare; era il prodotto di una “lunga storia”, studiata nei suoi aspetti particolari, come sempre,“sotto la sollecitazione di nuovi bisogni”. Ma anche altri aspetti, altri momenti, della vita pratica – “…tutti i nostri sentimenti di uomini così detti inciviliti, …e tutte le nostre istituzioni in senso stretto,…la famiglia, lo Stato, il commercio, l’industria, la milizia…” – avevano una loro “lunga storia”; e le istituzioni stesse si riferivano ad “atteggiamenti, sia utilitari sia morali”, dello spirito. Nella crisi dei sentimenti o delle istituzioni si era definita la necessità di comprenderne “la vera «natura», cioè la genesi storica”: così, la moderna storiografia sociale aveva potuto presto risolvere il “caos cronachistico” in robuste e ordinate “serie di ricerche”, rivolgendosi tanto a “storie complessive…della civiltà” quanto a specifiche storie “di classi,di popoli, di correnti sociali, di sentimenti, di istituzioni”.
Nel 1946, Santi Romano avrebbe aggiunto una significativa nota alla seconda edizione
dell’Ordinamento giuridico. “Per istituzione – aveva scritto – noi intendiamo ogni ente o corpo
sociale”: la definizione, “semplice e breve”, richiedeva tuttavia un “lungo commento”. Si
tratta, anche in questo caso, di pagine note, pur se – forse – in un ambito meno ampio: “…
Il diritto, prima di essere norma, prima di concernere un semplice rapporto o una serie di
rapporti sociali, è organizzazione, struttura, posizione della stessa società in cui si svolge
e che esso costituisce come unità, come ente per sé stante”. Perciò, il concetto che solo
poteva “rendere in termini esatti quello di diritto” – del diritto come “ordinamento giuridico
considerato complessivamente e unitariamente” – era il concetto di istituzione: “…Ogni
ordinamento giuridico è un’istituzione, e…ogni istituzione è un ordinamento giuridico”.
Quindi, il lungo commento doveva definire meglio un concetto essenziale: l’ “ente” doveva
avere innanzitutto un’esistenza concreta; e la sua individualità doveva essere riconoscibile,
doveva essere “esteriore e visibile”, com’era ovvio, appunto, per un corpo sociale. L’istituzione era infatti un ente o un corpo sociale, proprio perché era manifestazione notevole, peculiare, eminente della natura sociale – e “non puramente individuale” – dell’uomo. Tuttavia, era anche un “ente chiuso”, che poteva “venire in considerazione in sé e per sé” solo in quanto possedeva quella propria e distinta individualità, che lo rendeva visibile – e che perciò non escludeva la “correlazione con altri enti, con altre istituzioni” –. D’altronde, accanto alle istituzioni semplici, erano almeno altrettanto frequenti le istituzioni dette complesse: le “istituzioni di istituzioni”. Se l’istituzione Stato era compresa nella piú ampia comunità internazionale, in essa era però possibile distinguere numerose altre istituzioni: gli enti pubblici “subordinati allo Stato”, i comuni, le province, i “varii…organi intesi come uffici”, o i poteri, “legislativo, giudiziario, amministrativo”, in quanto “unità formate ciascuna da uffici fra loro collegati”. In questo ambito, l’autonomia di ogni istituzione poteva essere soltanto relativa. Infine, l’istituzione era una “unità ferma e permanente”, che non perdeva la sua identità nel mutare dei suoi singoli elementi.
A margine delle pagine dedicate all’esistenza “obiettiva e concreta” dell’istituzione; o all’uso
improprio ma innocuo di un termine corrente nel linguaggio comune; o alle stesse incertezze
gravanti sulla definizione dell’istituto giuridico, Romano notava come Croce parlasse appunto
di istituti riferendosi a materie che non interessavano affatto il giurista; e attribuisse invece al termine “istituzione” un significato atipico, molto più comprensivo che quello di ente o corpo sociale. Nel complesso elenco crociano, il significato specifico sarebbe convenuto
invece soltanto alla famiglia ed allo Stato. La puntigliosa nota era forse un semplice, tardivo,
momento residuo di una polemica comune, più antica e più nobile: la polemica legata al ruolo
del diritto nella Filosofia della pratica. D’altronde, si sarebbe potuto comprendere meglio quel
suggestivo e singolare tentativo definitorio semplicemente proseguendo nella lettura: per
Croce, infatti, anche la biografia era storia di un “istituto” nella “accezione filosofica della
parola”. Ogni individuo – come ogni popolo e ogni classe – era “un complesso di attitudini
specificate e di conseguenti azioni”; e la biografia, appunto, “tesse[va] la storia” solo di
quelle attitudini e di quelle azioni. La stessa “umanità della storia” postulava che si tracciasse un confine assai netto verso le “tendenze” variamente dette “sociologiche, istituzionali, dei valori”. La molteplice complessità dei processi storici, la “effettiva e concreta unità” di una ricerca sempre “particolare”, non potevano essere costrette nella necessaria rigidità delle definizioni giuridiche.
Credo di conoscere bene soltanto uno fra gli archivi cui è dedicata la meritoria fatica di
Giuseppe Dibenedetto. Un lungo percorso professionale – nutrito di costante e vigile
attenzione agli strumenti della ricerca e alle ragioni della scuola – si conclude nel modo
più degno. I periodi concisi giovano alla rapida efficacia del fitto discorso, che naturaliter
rifugge da tutte le blandizie dell’ornato. La non agevole informazione, preliminare ad ogni
ricerca archivistica, e la necessaria premessa istituzionale ne traggono indubbio beneficio.
Il filo dell’esposizione si dipana infatti attraverso l’ordine – e, talvolta, anche attraverso il groviglio – delle istituzioni; ma, soprattutto, attraverso la continuità delle istituzioni. Penso alla dimensione provinciale, delineata secondo l’archetipo illustre dei giustizierati normanni; penso alla presenza degli organi del potere centrale sul territorio: le regie udienze; la recezione dell’ordinamento amministrativo francese – cui Adolphe Thiers, nel primo volume della Histoire du Consulat et de l’Empire, aveva riconosciuto il “vantaggio della perfezione tecnica”, il pregio dell’eccellenza, e quindi dell’efficienza –: le intendenze, le sottointendenze, il fitto ed organico reticolo dei consigli. In uno stato privo di un “corpo rappresentativo” – scrisse Luigi Blanch –, il ministro dell’interno era il fulcro dell’intero “sistema amministrativo”, era il “naturale protettore della ricchezza e dell’intelligenza”. Il compromesso adottato con la Restaurazione aveva infatti prodotto un governo “né vecchio né nuovo”; aveva prodotto “un potere vecchio nelle sue tendenze, novatore nei suoi atti, e non amato né da coloro che tenevano al passato, né da quelli che tenevano all’avvenire”. Nel 1837, Nicola Comerci definiva l’intendente “l’occhio del ministro dell’interno”; e – tre anni dopo – Giovanni Manna notava come l’intendente fosse chiamato a “provocare e a mantenere il doppio
movimento di concentrazione e diffusione della forza pubblica” in ogni “associazione
minore dello stato”. Poi, la legislazione unitaria: le prefetture e le sottoprefetture, fino ai
numerosi organi locali – la giunta provinciale amministrativa; la commissione provinciale di
beneficenza e di assistenza pubblica –, in cui si rifranse il grande polittico crispino, progetto insieme riformatore e restauratore.
Ma penso anche all’articolarsi concreto dei poteri locali sullo stesso territorio; all’organizzazione dei comuni, e poi delle amministrazioni provinciali; ai differenti “gradi” di autonomia. La lucida coerenza della costruzione di Santi Romano, l’ordinarsi delle istituzioni, si colgono anche meglio in una dimensione diacronica; cosí come possono cogliersi facilmente pur
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nella povera, necessaria, monotonia dei fitti inventari: lo Stato, le istituzioni di istituzioni, gli
enti pubblici subordinati allo Stato, un’autonomia sempre relativa, e tuttavia gestita in forme
e modi molto diversi. I registri degli stati discussi attestano per lunghi anni la precarietà e la
modestia della finanza locale – nella rigidità della divisione in classi napoletana –; ma neanche
i controlli piú severi potevano talvolta impedire gli sprechi. Né d’altronde le ancor piú gravi
difficoltà postunitarie – frutto di un equivoco non ancora dissolto – poterono impedire il
coraggioso protagonismo di almeno alcune amministrazioni provinciali; ed il lento ma sicuro
definirsi di aree piú “forti” in una compagine lungamente ritenuta unitaria.
Voglio però riferirmi infine, piuttosto che ad un’istituzione, ad un peculiare, antico, controverso,
istituto del diritto pubblico napoletano – un istituto di “diritto pubblico specialissimo”, come
si disse nell’Ottocento –, per secoli definito non tanto dalle consuetudini e dalle norme – dai
capitoli angioini e dalle prammatiche aragonesi fino alla legislazione postunitaria – quanto
dagli abusi e dalla sistematica violazione delle norme, e dalla connessa giurisprudenza: il
complesso dei demani comunali e feudali su cui si esercitavano gli usi civici. Chi pensi a
quanti legami questo istituto abbia avuto con la dolente storia politica, sociale, economica
del regno meridionale comprende molto meglio il valore ed il significato della nutrita serie
di esempi proposta da Benedetto Croce, perché – prescindendo dalla ricchezza immaginosa
di un linguaggio non condizionato dal rigore del giurista – comprende davvero, ben oltre i
confini delle storie speciali, l’unità del processo storico: quell’unità che avrebbe forse trovato
la sua espressione più alta nel primo capitolo della Storia d’Europa, nello stesso rifiuto della
celebre distinzione di Constant. In questo senso, infatti, l’istituto giuridico, nonostante
l’impervia dimensione tecnica, esprime anche “tutti gli atteggiamenti pratici degli individui”
– baroni, contadini, usurpatori, intendenti, prefetti, magistrati, politici, giuristi – che, a
diverso titolo – ognuno con le sue “attitudini specificate” e con le “conseguenti azioni” –,
fecero dei demani comunali una sorta di triste simbolo del sottosviluppo meridionale; ed
insieme accoglie, con esemplare chiarezza, la piú evidente ed intricata concordia discors di quegli
“atteggiamenti”, talvolta nobilmente “morali” ma, molto piú spesso, soltanto “utilitarî”, con
l’assoluta, pacifica garanzia dell’impunità.
Il 15 novembre 1920, in uno dei suoi “foglietti” quotidiani, Giuseppe Capograssi notava
come le leggi, ed i libri dei giuristi, su cui si affaticava, sarebbero presto “rimasti come solo
pascolo dell’erudito, come solo diletto del vecchio che va ricercando le…singolarità delle età
vecchie…”. Ma, subito, aggiungeva: “Cosìnoi adesso sfogliamo…i libri del vecchio diritto,
come se entrassimo nel chiuso ed immoto aere dei sotterranei, e a gran pena riusciamo a
pensare che la realtà la vita vera, la vita…che cogliamo nel suo atto e ci circonda, èstata
làdentro…”. Èpossibile, invece, ed èforse probabile, che la vita còta “nel suo atto” sia
talvolta sfuggita ai libri del “vecchio diritto”. Tuttavia, la si puòsempre ritrovare nella silente,
preziosa, feconda umiltàdella ricerca archivistica, soprattutto se si abbia il conforto di una
guida cosìprestigiosa.
Gianfranco Liberati
Docente di Storia del Diritto Italiano
Università degli Studi di Bari
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INTRODUZIONE
L’Archivio di Stato è un ufficio pubblico incaricato principalmente della conservazione dei
documenti e degli atti storici che interessano lo Stato.
Naturalmente la maggior parte di tali documenti presenta quell’immagine di se stesso che il
potere ha scelto di conservare per il futuro, un’immagine un po’ costruita che il ricercatore
deve considerare come tale per poi mediare le due culture, quella presente e quella passata,
in un’analisi storica quanto più corretta possibile.
La dottrina archivistica ricorda che è necessario accostarsi alle fonti con metodo, cercando
un rapporto non con il singolo documento estrapolato, ma con la totalità documentaria che
costituisce, in una unità inscindibile, l’archivio di un Ente o di un Istituto.
Pertanto si rivela propedeutica ad una ricerca più accurata la conoscenza delle istituzioni e
delle magistrature di una determinata epoca, indispensabile per lo studioso che voglia più
agevolmente risalire all’organizzazione politica, amministrativa e giudiziaria di un territorio
e intenda, attraverso tali segmenti, recuperare una dimensione storica il più possibile vicina
alla realtà.
L’archivio è lo specchio fedele dell’organo o della magistratura nei momenti della sua attività
e lo riproduce, nella documentazione prodotta, nelle sue articolazioni interne, nel suo contenuto,
nel suo comportamento e persino nelle stesse persone che lo hanno governato.
Gli archivi, dunque, di qualsiasi natura e provenienza, assumono oggi, accanto all’antico
valore di monumenta iurium, quello di insostituibile strumento per l’interpretazione della realtà
e di conseguenza, a vari livelli, per la ricostruzione delle vicende storiche.
Oggi, attraverso un’analisi più approfondita di certe strutture, quali quelle demografiche,
è possibile ricomporre le attività vitali di una popolazione del passato, sempre che sia ben
indirizzato il rapporto con il documento e con l’archivio.
Tutto è oggetto di storia con pari dignità: i documenti fiscali dei Governi, i mercuriali o liste di
prezzi ufficiali, i registri dei dazi, i testamenti, i contratti, i registri dello stato civile o della leva.
Ogni serie omogenea di dati, se adeguatamente interrogata, può contribuire a ricreare uno
spessore storico attraverso le sue risultanti economiche e sociali e può inoltre meglio documentare
e chiarire quelle dinamiche interne che hanno consentito lo strutturarsi delle classi
sociali, del potere pubblico, delle rivolte sociali.
Il ricercatore quindi, favorito dai più recenti parametri storiografici, può rivolgere a quei
documenti che furono scritti e conservati per tutto un altro fine nuove domande, sicuro di
poterne ricavare elementi utili per rischiarare le tematiche sinora escluse dalla storia.
Ed ecco che la storia locale, non appesantita dalle abusate etichette proprie della tradizione,
può offrire l’occasione di verificare l’opportunità di tali proposte metodologiche. Infatti la
formulazione di queste domande, rivolte ad una documentazione proveniente da un ambito
circoscritto, consente l’elaborazione di una storia che, abbandonato il momento puramente
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erudito e celebrativo e la logica del localismo occasionale, si è trasformata da storia «periferica
» o «marginale» in storia «totale», proprio grazie alle molteplici coordinate che emergono
dai rinnovati itinerari documentari.
In questa fase di graduale aggiornamento, l’archivio si propone come guida privilegiata per
una migliore individuazione e selezione dei percorsi culturali da intraprendere, percorsi che
non intendono convogliare verso conclusioni predeterminate, ma piuttosto indicare degli
orizzonti sempre problematici e degli itinerari aperti ad ogni possibile indagine.
Non sono, infatti, pochi gli ambiti entro cui possono spaziare le ricerche archivistiche, che
abbracciano, sia ricordato per inciso, campi notevolmente diversi tra loro, quali quelli storico
in generale, storico‑artistico, economico‑giuridico‑sociale, attraverso l’analisi dei fondi diplomatico,
notarile e giudiziario, nonché indagini filologiche, linguistiche e demografiche, che i
catasti antichi ed onciari ‑ in particolare ‑ consentono di avviare.
Dall’archivio parte, in conclusione, un invito alla ricerca. Agli studiosi è affidato l’alto compito
di scegliere e definire l’impianto illustrativo più vicino ai propri interessi e più funzionale
ad una divulgazione sempre più ampia e organizzata della storia.
La diversità della fonte di produzione corrisponde alla diversità del titolo di proprietà del
bene archivistico, che, salvo alcune eccezioni dovute a particolari momenti storici o a contingenze
straordinarie, si perpetua a tutt’oggi. La pluralità dei possessori – sia ben chiaro – non
è un fatto voluto o accidentale, come potrebbe accadere per i beni bibliografici, architettonici,
pittorici o simili, ma è strettamente legata alla produzione del bene e quindi agli interessi
materiali, anche attuali, del produttore stesso.
Poiché un fondamentale carattere distintivo del bene archivistico è quello di conservare, pur
se antico e compiutamente storicizzato, il duplice valore di testimonianza storica – quindi di
bene culturale – e di strumento giuridico, sempre attuale e necessario per la vita materiale del
produttore, ne consegue che, nel pensare ad un suo futuro, sono necessari metodi in parte
diversificati da quelli adottati o da adottare per la generalità dei beni culturali e strumenti
interpretativi atti a permettere lo sfruttamento di tali fonti e la loro corretta conservazione
e valorizzazione.
Accanto alla prima e più immediata fruizione degli Istituti archivistici, resa possibile dal loro
compito istituzionale di conservare un patrimonio peculiare come è quello dei documenti e
di consentirne l’utilizzo da parte di un’utenza qualificata di ricercatori, si pone certamente, e
con sempre maggiore evidenza, anche la necessità di una più vasta valorizzazione del patrimonio
archivistico stesso, che, superando il momento banalmente promozionale, risponda
alle esigenze e problematiche della gestione, ma anche alle richieste, rivolte dalla società, che
talvolta vanno esattamente individuate e persino incoraggiate.
Dunque, accanto a una professionalità tradizionale e ben determinata, viene postulata, direttamente
o indirettamente, una sempre maggiore “presenza” nella realtà culturale mobile e
contraddittoria in cui viviamo.
Di fronte a una temuta “distruzione della storia”, proprio i luoghi di conservazione della
memoria storica scritta ed organizzata, stratificatasi negli archivi, vengono oggi sollecitati,
quale che sia il modo discontinuo e spesso rozzo di concretizzarsi della domanda, a fornire
non solo un volume sempre più differenziato e globalmente crescente di informazioni e di
occasioni di accesso, ma a porsi come referente nel territorio più ampio dei beni culturali.
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Il divenire interlocutori, certo non privilegiati, ma sempre più responsabili nel dialogo della ricerca
interdisciplinare ed anche nel contraddittorio delle proposte e delle rivendicazioni, obbliga
ad essere interlocutori tanto più eloquenti, quanto più in grado di precisare il proprio discorso
e di rendere chiari ad altri, oltre che a se stessi, gli ambiti entro i quali essere interpellati.
L’ambiente reale in cui si muove ogni Istituto archivistico ha una sua quotidianità e una sua
presenza non più trascurabile. Non si fa politica culturale senza tenere conto del territorio,
delle sue caratteristiche essenziali come della sua potenziale richiesta di servizi: nel campo archivistico
l’Amministrazione sembra dunque chiamata nello stesso tempo al maggior sforzo
e alla più rigorosa tutela della sua identità.
Negli ultimi anni (approssimativamente a partire dalla metà degli anni Sessanta si è prodotto
un profondo mutamento nel modo di concepire il compito che la società e le sue istituzioni
hanno nei confronti delle testimonianze della civiltà passata; questo compito non è più
inteso come unificazione mirante alla conservazione, ma piuttosto come mirante alla “valorizzazione”
o anche, come forse meglio qualcuno si esprime, all’attiva “gestione”, e ad una
gestione nella quale sia consentita ed anzi sollecitata la partecipazione della società stessa.
Connessa a questa nuova immagine del compito in questione è la stretta congiunzione
dell’idea di patrimonio
culturale all’idea di territorio.
L’idea di “territorio” non appare per lo più sufficientemente
precisata. Il minimo che si possa
dire, è che esso non ha da essere inteso come entità puramente spaziale, ma come spazio
umano, spazio definito in connessione ad una (relativa) unità sociale che lo occupa, che in
esso ha espresso la propria maturità civile, che in esso quindi ritrova le sedimentazioni obiettive
a partire dalle quali può fermamente ritrovare la propria identità storica.
In questa luce è possibile raggiungere un’idea un poco più precisa di quell’attiva gestione dei
beni culturali che intende contrapporsi alla pura conservazione di essi quali “monumenti”
morti del passato, esso stesso “morto”. Come accade per il “territorio” tutto, i beni culturali
che ne costituirebbero elemento integrante dovrebbero costituire il tramite di un’identificazione
di sé da parte del gruppo sociale: identificazione la quale non potrebbe prodursi senza
consapevole assunzione
del proprio “passato” e integrazione di esso nel presente vissuto e
nel progetto del proprio futuro. Riscontro obiettivo della connessione sussistente tra nuova
idea della “gestione” sociale dei beni culturali e idea di “territorio” è offerto dalla constatazione
che di fatto il dibattito degli ultimi anni sui beni culturali appare coincidere con
l’attuazione dell’ordinamento regionale e più in generale con un periodo di vivace ripresa di
iniziativa da parte dei Comuni e degli istituti di partecipazione politica a livello periferico. Un
ruolo dinamico e, sotto certi aspetti, rivoluzionario rispetto al passato, è svolto in particolare
dagli Archivi di Stato: fra questi si è distinto per la sua molteplice e variegata attività l’Archivio
di Stato di Bari con le Sezioni di archivio di Stato di Trani e Barletta.
Da questa premessa, sulla base della constatazione del crescente interesse manifestato verso
le fonti manoscritte da parte di un numero sempre maggiore di utenti che ad esse si accostano,
è scaturita l’esigenza e l’opportunità di varare un progetto finalizzato alla redazione di
una guida degli Archivi di Stato di Terra di Bari, che completa quella pubblicata già nel 1976 e
che a distanza di trent’anni si è ritenuto opportuno aggiornare in considerazione del notevole
incremento documentario provocato anche per il trasferimento di funzioni dal Governo
della Repubblica agli enti territoriali (Regione in primo luogo).

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