mercoledì 18 maggio 2011

TEMA DI STUDIO ED OPERATIVO PRESCELTO DURANTE IL XV CONGRESSO DISTRETTUALE DEL DISTRETTO LIONS

TEMA DI STUDIO ED OPERATIVO PRESCELTO DURANTE IL XV CONGRESSO DISTRETTUALE DEL DISTRETTO LIONS 108AB 14-15/05/2011 per l'anno sociale 2011-2012

TEMA DI STUDIO DISTRETTUALE:

“LA COSCIENZA AMBIENTALE COME FORMAZIONE DELLA PARTECIPAZIONE COLLETTIVA. AMBIENTE COME BENE E VALORE COLLETTIVO: PROBLEMI E PROSPETTIVE”

– Testo redatto da Giuseppe DIBENEDETTO e presentato dall’avv. Alessandro de felice, presidente del L. C. “N. Piccinni.”

(presentato da: L.C. BARI “N.PICCINNI”, CASSANO DELLE MURGE, MINERVINO MURGE”BOEMONDO D’ALTAVILLA”)

TEMA OPERATIVO DISTRETTUALE:

“VALORIZZARE LE RISORSE CULTURALI E NATURALI DEL NOSTRO TERRITORIO PER ASSICURARE UN PROCESSO DI SVILUPPO EQUILIBRATO, SOATENIBILE E FRUIBILE.”

- Testo redatto da Giuseppe DIBENEDETTO e presentato da Giuseppe Dibenedetto, socio del L. C. “N. Piccinni.”.

(presentato da: L.C. BARI “N.PICCINNI” N.C., CASTEL DEL MONTE“HOST”,PUTIGNANO

domenica 15 maggio 2011

CONSIGLIO DIRETTIVO DEL LION CLUB BARI N. PICCINNI N. C. ANNO SOCIALE 2011-2012

CONSIGLIO DIRETTIVO DEL LION CLUB BARI N. PICCINNI N. C. ANNO SOCIALE 2011-2012.

Presidente: Benny Rossini

Past Presidente: Alessandro de Felice

I Vice Presidente : Elio Contini

II Vice Presidente: Nicola Bruno

III Vice Presidente: Piero Villani

Segretario: Silvana Gallo

Addetto alla segreteria: Francesco Fiumara

Tesoriere: Giuseppe Sasanelli

Revisore conti: Nicola Biancofiore

Censore: Vittorio Devenuto

Consigliere: Gaetano Leobardi

Consigliere e addetto stampa: Giuseppe Dibenedetto

Cerimoniere: Maria Antonietta Del Core

Presidente comitato soci: Francesco Belligerante

Componente comitato soci: Giuseppe Viterbo

Componente comitato soci: Rossella Contini

Addetto informatico: Barbara De Leo

Referente service "Un poster per la pace": Marisa Santamaria

Referente service "Nazionale": Rita Conte

Referente service distrettuale: Margherita Ippolito.

sabato 14 maggio 2011

NUOVO CONSIGLIO DIRETTIVO DELL’ASSOCIAZIONE AMICI CAMPANI

IL CONSIGLIO DIRETTIVO DELL’ASSOCIAZIONE “AMICI CAMPANI” PER IL BIENNIO 2011-2013 E’ COSI’ COSTITUITO:

PRESIDENTE prof.Giuseppe Dibenedetto

PAST PRESIDENTE dott.Vinicio Coppola

VICE PRESIDENTE VICARIO
dott. Bonifacio De Nuccio

VICE PRESIDENTE CERIMONIERE
prof.ssa Anna De Paola Trentadue

SEGRETARIO Ing.Michele Falcone

TESORIERE dott.ssa Carmela Piccolo D’Alessandro

CONSIGLIERI Dott.Michele Cristallo

Ing.Francesco Belligerante

Dott.Vittorio De Venuto

Ing.Vincenzo Di Leva

Dott.Antonio Falcone

Prof.Aldo Luisi

Dott.Aldo Ventola

giovedì 7 aprile 2011

Gli Archivi di Stato di Terra di Bari

Gli Archivi di Stato di Terra di Bari
(Bari, Trani, Barletta)
a cura di
Giuseppe Dibenedetto
presentazione di
Gianfranco Liberati
Edizioni Grafisystem
2007
Riservato ogni diritto di riproduzione anche parziale dei testi senza l’autorizzazione dell’editore. Luglio 2007
Edito da: Edizioni GrafiSystem Copyright © GrafiSystem snc - Modugno – Bari ISBN 978-88-89979-05-1
Impaginazione e stampa: GrafiSystem snc 70026 Modugno - Bari (z.i.) C.da Macchia Lampone, A/3Tel. 080.5375408/76 Fax 080.5308771 www.grafisystem.it info@grafisystem.it - Volume di 609 pagine

PRESENTAZIONE

“…Nella filosofia che abbiamo delineata, la Realtà è affermata come Spirito, ma non già
tale che stia sopra il mondo o corra attraverso il mondo, sibbene che coincide col mondo…
Lo Spirito, che è il mondo, è lo Spirito che si svolge, e perciò uno e diverso insieme, eterna
soluzione ed eterno problema, e la sua autocoscienza è la filosofia che è la sua storia, o la
sua storia che è la sua filosofia, sostanzialmente identiche; e identica è la coscienza con
l’autocoscienza, cioè distinta e una insieme, come la vita e il pensiero…”: è una pagina
notissima di Benedetto Croce, l’ultima pagina di Teoria e storia della storiografia. Le conclusioni avevano già trovato conforto nell’opera dedicata da Friedrich Meinecke a Cosmopolitismo e stato nazionale, pubblicata nel 1911; ma la netta, orgogliosa, chiarezza, la concisa efficacia della forma non lasciavano tuttavia intuire le molte asperità di un lungo percorso.
La lettura della Teoria mi ha spesso indotto a soffermarmi, per forte propensione personale,
sulla seconda Appendice, dedicata all’Analogia e anomalia delle storie speciali: “…Nel corso delle precedenti dilucidazioni teoriche, abbiamo…fatto valere la…duplice sentenza: che la storia
è sempre particolare, ed è sempre speciale; e che queste due determinazioni costituiscono…
l’effettiva e concreta universalità e l’effettiva e concreta unità…”. Per comprendere la
“sentenza”, bisognava innanzitutto sfatare l’inveterato pregiudizio che voleva la storia
della filosofia – “continua”, e quindi “capace di una visione complessiva ed universale”
– oggetto privilegiato di trattazioni, appunto, universali; e considerava invece la storia
dell’arte – discontinua, e quindi vera “sequela di visioni particolari” – quale argomento
elettivo delle trattazioni monografiche. Bisognava, poi, dimostrare quanto fosse infondata
la richiesta ricorrente di una storia universale della scienza: “…Se ogni particolare problema
filosofico…si congiunge…con tutti gli altri problemi filosofici, ogni problema scientifico
tende a chiudersi in sé stesso…”. Ogni storia era, invece, “particolare”, perché determinata
dai problemi politici ed etici che – secondo i tempi ed i luoghi – si ponevano allo storico;
ogni storia, infatti, doveva “ripensarsi da capo di volta di volta”. La presunta anomalia doveva
ascriversi soltanto alla “indole peculiare” di ogni ricerca.
La storia della filosofia – scriveva Croce – aveva più volte “tentato di divorare la storia della poesia e dell’arte”; ed aveva compiuto un analogo tentativo anche con la storia “politica
ed etica”, con la storia sociale. Infatti, si riteneva comunemente che questa non si sarebbe
mai sollevata dall’ovvietà ripetitiva della mera cronaca senza lo studio delle “idee” che la
guidavano. L’originalità della storia politica ed etica nasceva invece proprio dal suo oggetto:
“…quel che con unico vocabolo si potrebbe designare come istituti; intendendo questa
parola in senso latissimo, ossia comprendendovi tutti gli atteggiamenti pratici degli individui
e delle società umane…: tutti del pari produzioni storiche appercepibili secondo la forma
pratica dello spirito”. D’altronde, il grande “patrimonio di giudizî”, che formava l’autentico
“capitale” iniziale di ogni ricerca, era – a sua volta – il prodotto di uno svolgimento secolare; era il prodotto di una “lunga storia”, studiata nei suoi aspetti particolari, come sempre,“sotto la sollecitazione di nuovi bisogni”. Ma anche altri aspetti, altri momenti, della vita pratica – “…tutti i nostri sentimenti di uomini così detti inciviliti, …e tutte le nostre istituzioni in senso stretto,…la famiglia, lo Stato, il commercio, l’industria, la milizia…” – avevano una loro “lunga storia”; e le istituzioni stesse si riferivano ad “atteggiamenti, sia utilitari sia morali”, dello spirito. Nella crisi dei sentimenti o delle istituzioni si era definita la necessità di comprenderne “la vera «natura», cioè la genesi storica”: così, la moderna storiografia sociale aveva potuto presto risolvere il “caos cronachistico” in robuste e ordinate “serie di ricerche”, rivolgendosi tanto a “storie complessive…della civiltà” quanto a specifiche storie “di classi,di popoli, di correnti sociali, di sentimenti, di istituzioni”.
Nel 1946, Santi Romano avrebbe aggiunto una significativa nota alla seconda edizione
dell’Ordinamento giuridico. “Per istituzione – aveva scritto – noi intendiamo ogni ente o corpo
sociale”: la definizione, “semplice e breve”, richiedeva tuttavia un “lungo commento”. Si
tratta, anche in questo caso, di pagine note, pur se – forse – in un ambito meno ampio: “…
Il diritto, prima di essere norma, prima di concernere un semplice rapporto o una serie di
rapporti sociali, è organizzazione, struttura, posizione della stessa società in cui si svolge
e che esso costituisce come unità, come ente per sé stante”. Perciò, il concetto che solo
poteva “rendere in termini esatti quello di diritto” – del diritto come “ordinamento giuridico
considerato complessivamente e unitariamente” – era il concetto di istituzione: “…Ogni
ordinamento giuridico è un’istituzione, e…ogni istituzione è un ordinamento giuridico”.
Quindi, il lungo commento doveva definire meglio un concetto essenziale: l’ “ente” doveva
avere innanzitutto un’esistenza concreta; e la sua individualità doveva essere riconoscibile,
doveva essere “esteriore e visibile”, com’era ovvio, appunto, per un corpo sociale. L’istituzione era infatti un ente o un corpo sociale, proprio perché era manifestazione notevole, peculiare, eminente della natura sociale – e “non puramente individuale” – dell’uomo. Tuttavia, era anche un “ente chiuso”, che poteva “venire in considerazione in sé e per sé” solo in quanto possedeva quella propria e distinta individualità, che lo rendeva visibile – e che perciò non escludeva la “correlazione con altri enti, con altre istituzioni” –. D’altronde, accanto alle istituzioni semplici, erano almeno altrettanto frequenti le istituzioni dette complesse: le “istituzioni di istituzioni”. Se l’istituzione Stato era compresa nella piú ampia comunità internazionale, in essa era però possibile distinguere numerose altre istituzioni: gli enti pubblici “subordinati allo Stato”, i comuni, le province, i “varii…organi intesi come uffici”, o i poteri, “legislativo, giudiziario, amministrativo”, in quanto “unità formate ciascuna da uffici fra loro collegati”. In questo ambito, l’autonomia di ogni istituzione poteva essere soltanto relativa. Infine, l’istituzione era una “unità ferma e permanente”, che non perdeva la sua identità nel mutare dei suoi singoli elementi.
A margine delle pagine dedicate all’esistenza “obiettiva e concreta” dell’istituzione; o all’uso
improprio ma innocuo di un termine corrente nel linguaggio comune; o alle stesse incertezze
gravanti sulla definizione dell’istituto giuridico, Romano notava come Croce parlasse appunto
di istituti riferendosi a materie che non interessavano affatto il giurista; e attribuisse invece al termine “istituzione” un significato atipico, molto più comprensivo che quello di ente o corpo sociale. Nel complesso elenco crociano, il significato specifico sarebbe convenuto
invece soltanto alla famiglia ed allo Stato. La puntigliosa nota era forse un semplice, tardivo,
momento residuo di una polemica comune, più antica e più nobile: la polemica legata al ruolo
del diritto nella Filosofia della pratica. D’altronde, si sarebbe potuto comprendere meglio quel
suggestivo e singolare tentativo definitorio semplicemente proseguendo nella lettura: per
Croce, infatti, anche la biografia era storia di un “istituto” nella “accezione filosofica della
parola”. Ogni individuo – come ogni popolo e ogni classe – era “un complesso di attitudini
specificate e di conseguenti azioni”; e la biografia, appunto, “tesse[va] la storia” solo di
quelle attitudini e di quelle azioni. La stessa “umanità della storia” postulava che si tracciasse un confine assai netto verso le “tendenze” variamente dette “sociologiche, istituzionali, dei valori”. La molteplice complessità dei processi storici, la “effettiva e concreta unità” di una ricerca sempre “particolare”, non potevano essere costrette nella necessaria rigidità delle definizioni giuridiche.
Credo di conoscere bene soltanto uno fra gli archivi cui è dedicata la meritoria fatica di
Giuseppe Dibenedetto. Un lungo percorso professionale – nutrito di costante e vigile
attenzione agli strumenti della ricerca e alle ragioni della scuola – si conclude nel modo
più degno. I periodi concisi giovano alla rapida efficacia del fitto discorso, che naturaliter
rifugge da tutte le blandizie dell’ornato. La non agevole informazione, preliminare ad ogni
ricerca archivistica, e la necessaria premessa istituzionale ne traggono indubbio beneficio.
Il filo dell’esposizione si dipana infatti attraverso l’ordine – e, talvolta, anche attraverso il groviglio – delle istituzioni; ma, soprattutto, attraverso la continuità delle istituzioni. Penso alla dimensione provinciale, delineata secondo l’archetipo illustre dei giustizierati normanni; penso alla presenza degli organi del potere centrale sul territorio: le regie udienze; la recezione dell’ordinamento amministrativo francese – cui Adolphe Thiers, nel primo volume della Histoire du Consulat et de l’Empire, aveva riconosciuto il “vantaggio della perfezione tecnica”, il pregio dell’eccellenza, e quindi dell’efficienza –: le intendenze, le sottointendenze, il fitto ed organico reticolo dei consigli. In uno stato privo di un “corpo rappresentativo” – scrisse Luigi Blanch –, il ministro dell’interno era il fulcro dell’intero “sistema amministrativo”, era il “naturale protettore della ricchezza e dell’intelligenza”. Il compromesso adottato con la Restaurazione aveva infatti prodotto un governo “né vecchio né nuovo”; aveva prodotto “un potere vecchio nelle sue tendenze, novatore nei suoi atti, e non amato né da coloro che tenevano al passato, né da quelli che tenevano all’avvenire”. Nel 1837, Nicola Comerci definiva l’intendente “l’occhio del ministro dell’interno”; e – tre anni dopo – Giovanni Manna notava come l’intendente fosse chiamato a “provocare e a mantenere il doppio
movimento di concentrazione e diffusione della forza pubblica” in ogni “associazione
minore dello stato”. Poi, la legislazione unitaria: le prefetture e le sottoprefetture, fino ai
numerosi organi locali – la giunta provinciale amministrativa; la commissione provinciale di
beneficenza e di assistenza pubblica –, in cui si rifranse il grande polittico crispino, progetto insieme riformatore e restauratore.
Ma penso anche all’articolarsi concreto dei poteri locali sullo stesso territorio; all’organizzazione dei comuni, e poi delle amministrazioni provinciali; ai differenti “gradi” di autonomia. La lucida coerenza della costruzione di Santi Romano, l’ordinarsi delle istituzioni, si colgono anche meglio in una dimensione diacronica; cosí come possono cogliersi facilmente pur
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nella povera, necessaria, monotonia dei fitti inventari: lo Stato, le istituzioni di istituzioni, gli
enti pubblici subordinati allo Stato, un’autonomia sempre relativa, e tuttavia gestita in forme
e modi molto diversi. I registri degli stati discussi attestano per lunghi anni la precarietà e la
modestia della finanza locale – nella rigidità della divisione in classi napoletana –; ma neanche
i controlli piú severi potevano talvolta impedire gli sprechi. Né d’altronde le ancor piú gravi
difficoltà postunitarie – frutto di un equivoco non ancora dissolto – poterono impedire il
coraggioso protagonismo di almeno alcune amministrazioni provinciali; ed il lento ma sicuro
definirsi di aree piú “forti” in una compagine lungamente ritenuta unitaria.
Voglio però riferirmi infine, piuttosto che ad un’istituzione, ad un peculiare, antico, controverso,
istituto del diritto pubblico napoletano – un istituto di “diritto pubblico specialissimo”, come
si disse nell’Ottocento –, per secoli definito non tanto dalle consuetudini e dalle norme – dai
capitoli angioini e dalle prammatiche aragonesi fino alla legislazione postunitaria – quanto
dagli abusi e dalla sistematica violazione delle norme, e dalla connessa giurisprudenza: il
complesso dei demani comunali e feudali su cui si esercitavano gli usi civici. Chi pensi a
quanti legami questo istituto abbia avuto con la dolente storia politica, sociale, economica
del regno meridionale comprende molto meglio il valore ed il significato della nutrita serie
di esempi proposta da Benedetto Croce, perché – prescindendo dalla ricchezza immaginosa
di un linguaggio non condizionato dal rigore del giurista – comprende davvero, ben oltre i
confini delle storie speciali, l’unità del processo storico: quell’unità che avrebbe forse trovato
la sua espressione più alta nel primo capitolo della Storia d’Europa, nello stesso rifiuto della
celebre distinzione di Constant. In questo senso, infatti, l’istituto giuridico, nonostante
l’impervia dimensione tecnica, esprime anche “tutti gli atteggiamenti pratici degli individui”
– baroni, contadini, usurpatori, intendenti, prefetti, magistrati, politici, giuristi – che, a
diverso titolo – ognuno con le sue “attitudini specificate” e con le “conseguenti azioni” –,
fecero dei demani comunali una sorta di triste simbolo del sottosviluppo meridionale; ed
insieme accoglie, con esemplare chiarezza, la piú evidente ed intricata concordia discors di quegli
“atteggiamenti”, talvolta nobilmente “morali” ma, molto piú spesso, soltanto “utilitarî”, con
l’assoluta, pacifica garanzia dell’impunità.
Il 15 novembre 1920, in uno dei suoi “foglietti” quotidiani, Giuseppe Capograssi notava
come le leggi, ed i libri dei giuristi, su cui si affaticava, sarebbero presto “rimasti come solo
pascolo dell’erudito, come solo diletto del vecchio che va ricercando le…singolarità delle età
vecchie…”. Ma, subito, aggiungeva: “Cosìnoi adesso sfogliamo…i libri del vecchio diritto,
come se entrassimo nel chiuso ed immoto aere dei sotterranei, e a gran pena riusciamo a
pensare che la realtà la vita vera, la vita…che cogliamo nel suo atto e ci circonda, èstata
làdentro…”. Èpossibile, invece, ed èforse probabile, che la vita còta “nel suo atto” sia
talvolta sfuggita ai libri del “vecchio diritto”. Tuttavia, la si puòsempre ritrovare nella silente,
preziosa, feconda umiltàdella ricerca archivistica, soprattutto se si abbia il conforto di una
guida cosìprestigiosa.
Gianfranco Liberati
Docente di Storia del Diritto Italiano
Università degli Studi di Bari
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INTRODUZIONE
L’Archivio di Stato è un ufficio pubblico incaricato principalmente della conservazione dei
documenti e degli atti storici che interessano lo Stato.
Naturalmente la maggior parte di tali documenti presenta quell’immagine di se stesso che il
potere ha scelto di conservare per il futuro, un’immagine un po’ costruita che il ricercatore
deve considerare come tale per poi mediare le due culture, quella presente e quella passata,
in un’analisi storica quanto più corretta possibile.
La dottrina archivistica ricorda che è necessario accostarsi alle fonti con metodo, cercando
un rapporto non con il singolo documento estrapolato, ma con la totalità documentaria che
costituisce, in una unità inscindibile, l’archivio di un Ente o di un Istituto.
Pertanto si rivela propedeutica ad una ricerca più accurata la conoscenza delle istituzioni e
delle magistrature di una determinata epoca, indispensabile per lo studioso che voglia più
agevolmente risalire all’organizzazione politica, amministrativa e giudiziaria di un territorio
e intenda, attraverso tali segmenti, recuperare una dimensione storica il più possibile vicina
alla realtà.
L’archivio è lo specchio fedele dell’organo o della magistratura nei momenti della sua attività
e lo riproduce, nella documentazione prodotta, nelle sue articolazioni interne, nel suo contenuto,
nel suo comportamento e persino nelle stesse persone che lo hanno governato.
Gli archivi, dunque, di qualsiasi natura e provenienza, assumono oggi, accanto all’antico
valore di monumenta iurium, quello di insostituibile strumento per l’interpretazione della realtà
e di conseguenza, a vari livelli, per la ricostruzione delle vicende storiche.
Oggi, attraverso un’analisi più approfondita di certe strutture, quali quelle demografiche,
è possibile ricomporre le attività vitali di una popolazione del passato, sempre che sia ben
indirizzato il rapporto con il documento e con l’archivio.
Tutto è oggetto di storia con pari dignità: i documenti fiscali dei Governi, i mercuriali o liste di
prezzi ufficiali, i registri dei dazi, i testamenti, i contratti, i registri dello stato civile o della leva.
Ogni serie omogenea di dati, se adeguatamente interrogata, può contribuire a ricreare uno
spessore storico attraverso le sue risultanti economiche e sociali e può inoltre meglio documentare
e chiarire quelle dinamiche interne che hanno consentito lo strutturarsi delle classi
sociali, del potere pubblico, delle rivolte sociali.
Il ricercatore quindi, favorito dai più recenti parametri storiografici, può rivolgere a quei
documenti che furono scritti e conservati per tutto un altro fine nuove domande, sicuro di
poterne ricavare elementi utili per rischiarare le tematiche sinora escluse dalla storia.
Ed ecco che la storia locale, non appesantita dalle abusate etichette proprie della tradizione,
può offrire l’occasione di verificare l’opportunità di tali proposte metodologiche. Infatti la
formulazione di queste domande, rivolte ad una documentazione proveniente da un ambito
circoscritto, consente l’elaborazione di una storia che, abbandonato il momento puramente
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erudito e celebrativo e la logica del localismo occasionale, si è trasformata da storia «periferica
» o «marginale» in storia «totale», proprio grazie alle molteplici coordinate che emergono
dai rinnovati itinerari documentari.
In questa fase di graduale aggiornamento, l’archivio si propone come guida privilegiata per
una migliore individuazione e selezione dei percorsi culturali da intraprendere, percorsi che
non intendono convogliare verso conclusioni predeterminate, ma piuttosto indicare degli
orizzonti sempre problematici e degli itinerari aperti ad ogni possibile indagine.
Non sono, infatti, pochi gli ambiti entro cui possono spaziare le ricerche archivistiche, che
abbracciano, sia ricordato per inciso, campi notevolmente diversi tra loro, quali quelli storico
in generale, storico‑artistico, economico‑giuridico‑sociale, attraverso l’analisi dei fondi diplomatico,
notarile e giudiziario, nonché indagini filologiche, linguistiche e demografiche, che i
catasti antichi ed onciari ‑ in particolare ‑ consentono di avviare.
Dall’archivio parte, in conclusione, un invito alla ricerca. Agli studiosi è affidato l’alto compito
di scegliere e definire l’impianto illustrativo più vicino ai propri interessi e più funzionale
ad una divulgazione sempre più ampia e organizzata della storia.
La diversità della fonte di produzione corrisponde alla diversità del titolo di proprietà del
bene archivistico, che, salvo alcune eccezioni dovute a particolari momenti storici o a contingenze
straordinarie, si perpetua a tutt’oggi. La pluralità dei possessori – sia ben chiaro – non
è un fatto voluto o accidentale, come potrebbe accadere per i beni bibliografici, architettonici,
pittorici o simili, ma è strettamente legata alla produzione del bene e quindi agli interessi
materiali, anche attuali, del produttore stesso.
Poiché un fondamentale carattere distintivo del bene archivistico è quello di conservare, pur
se antico e compiutamente storicizzato, il duplice valore di testimonianza storica – quindi di
bene culturale – e di strumento giuridico, sempre attuale e necessario per la vita materiale del
produttore, ne consegue che, nel pensare ad un suo futuro, sono necessari metodi in parte
diversificati da quelli adottati o da adottare per la generalità dei beni culturali e strumenti
interpretativi atti a permettere lo sfruttamento di tali fonti e la loro corretta conservazione
e valorizzazione.
Accanto alla prima e più immediata fruizione degli Istituti archivistici, resa possibile dal loro
compito istituzionale di conservare un patrimonio peculiare come è quello dei documenti e
di consentirne l’utilizzo da parte di un’utenza qualificata di ricercatori, si pone certamente, e
con sempre maggiore evidenza, anche la necessità di una più vasta valorizzazione del patrimonio
archivistico stesso, che, superando il momento banalmente promozionale, risponda
alle esigenze e problematiche della gestione, ma anche alle richieste, rivolte dalla società, che
talvolta vanno esattamente individuate e persino incoraggiate.
Dunque, accanto a una professionalità tradizionale e ben determinata, viene postulata, direttamente
o indirettamente, una sempre maggiore “presenza” nella realtà culturale mobile e
contraddittoria in cui viviamo.
Di fronte a una temuta “distruzione della storia”, proprio i luoghi di conservazione della
memoria storica scritta ed organizzata, stratificatasi negli archivi, vengono oggi sollecitati,
quale che sia il modo discontinuo e spesso rozzo di concretizzarsi della domanda, a fornire
non solo un volume sempre più differenziato e globalmente crescente di informazioni e di
occasioni di accesso, ma a porsi come referente nel territorio più ampio dei beni culturali.
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Il divenire interlocutori, certo non privilegiati, ma sempre più responsabili nel dialogo della ricerca
interdisciplinare ed anche nel contraddittorio delle proposte e delle rivendicazioni, obbliga
ad essere interlocutori tanto più eloquenti, quanto più in grado di precisare il proprio discorso
e di rendere chiari ad altri, oltre che a se stessi, gli ambiti entro i quali essere interpellati.
L’ambiente reale in cui si muove ogni Istituto archivistico ha una sua quotidianità e una sua
presenza non più trascurabile. Non si fa politica culturale senza tenere conto del territorio,
delle sue caratteristiche essenziali come della sua potenziale richiesta di servizi: nel campo archivistico
l’Amministrazione sembra dunque chiamata nello stesso tempo al maggior sforzo
e alla più rigorosa tutela della sua identità.
Negli ultimi anni (approssimativamente a partire dalla metà degli anni Sessanta si è prodotto
un profondo mutamento nel modo di concepire il compito che la società e le sue istituzioni
hanno nei confronti delle testimonianze della civiltà passata; questo compito non è più
inteso come unificazione mirante alla conservazione, ma piuttosto come mirante alla “valorizzazione”
o anche, come forse meglio qualcuno si esprime, all’attiva “gestione”, e ad una
gestione nella quale sia consentita ed anzi sollecitata la partecipazione della società stessa.
Connessa a questa nuova immagine del compito in questione è la stretta congiunzione
dell’idea di patrimonio
culturale all’idea di territorio.
L’idea di “territorio” non appare per lo più sufficientemente
precisata. Il minimo che si possa
dire, è che esso non ha da essere inteso come entità puramente spaziale, ma come spazio
umano, spazio definito in connessione ad una (relativa) unità sociale che lo occupa, che in
esso ha espresso la propria maturità civile, che in esso quindi ritrova le sedimentazioni obiettive
a partire dalle quali può fermamente ritrovare la propria identità storica.
In questa luce è possibile raggiungere un’idea un poco più precisa di quell’attiva gestione dei
beni culturali che intende contrapporsi alla pura conservazione di essi quali “monumenti”
morti del passato, esso stesso “morto”. Come accade per il “territorio” tutto, i beni culturali
che ne costituirebbero elemento integrante dovrebbero costituire il tramite di un’identificazione
di sé da parte del gruppo sociale: identificazione la quale non potrebbe prodursi senza
consapevole assunzione
del proprio “passato” e integrazione di esso nel presente vissuto e
nel progetto del proprio futuro. Riscontro obiettivo della connessione sussistente tra nuova
idea della “gestione” sociale dei beni culturali e idea di “territorio” è offerto dalla constatazione
che di fatto il dibattito degli ultimi anni sui beni culturali appare coincidere con
l’attuazione dell’ordinamento regionale e più in generale con un periodo di vivace ripresa di
iniziativa da parte dei Comuni e degli istituti di partecipazione politica a livello periferico. Un
ruolo dinamico e, sotto certi aspetti, rivoluzionario rispetto al passato, è svolto in particolare
dagli Archivi di Stato: fra questi si è distinto per la sua molteplice e variegata attività l’Archivio
di Stato di Bari con le Sezioni di archivio di Stato di Trani e Barletta.
Da questa premessa, sulla base della constatazione del crescente interesse manifestato verso
le fonti manoscritte da parte di un numero sempre maggiore di utenti che ad esse si accostano,
è scaturita l’esigenza e l’opportunità di varare un progetto finalizzato alla redazione di
una guida degli Archivi di Stato di Terra di Bari, che completa quella pubblicata già nel 1976 e
che a distanza di trent’anni si è ritenuto opportuno aggiornare in considerazione del notevole
incremento documentario provocato anche per il trasferimento di funzioni dal Governo
della Repubblica agli enti territoriali (Regione in primo luogo).

14o
...

lunedì 7 marzo 2011

Promuovere i principi di buon governo e di buona cittadinanza

Un’associazione come la nostra deve tendere a
dare una comune univocità alle attuazioni verso la
società… di Giuseppe Dibenedetto *

Le novità istituzionali di questi ultimi due decenni,
rappresentate dalla nuova disciplina del diritto di
sciopero, dalla riforma del procedimento amministrativo
e dal riordino del sistema delle autonomie, consentono
di formulare un’ipotesi radicale di riassetto del rapporto
tra cittadino e istituzioni per come si era venuto configurando
nella storia dell’Italia moderna.
In definitiva, se la questione chiave sta nella relativa
estraneità del cittadino italiano rispetto alla sfera pubblica,
un sentimento che lo distingue dai cittadini delle
grandi democrazie moderne, i mutamenti istituzionali
che sono alla base del passaggio dalla prima alla seconda
repubblica, benché importanti, non bastano a segnare
una novità di questa portata.
Volendo azzardare qualche ipotesi sulle possibili cause
di un processo di più ampia portata e di più profonde
radici, ci si può riferire in primo luogo all’integrazione
europea. Quest’aspetto può avere agito per più concause.
In primo luogo, costringendo il sistema Italia a una
competizione globale, ha evidenziato gli svantaggi relativi
che gravano sul sistema produttivo del nostro paese
a causa dell’inefficienza della macchina amministrativa.
In secondo luogo, l’introduzione di un nuovo livello istituzionale
di dimensione sovranazionale ha evidenziato
il difetto di funzionalità dei successivi livelli, nazionale
e locale. In più, spostando nel nuovo ambito sovranazionale
la dimensione stessa dello stato, ha in qualche
modo contribuito a chiudere la partita della separatezza
tra cittadino e stato che la repubblica, nonostante la resistenza,
ancora sopportava come eredità non risolta del
Risorgimento (questione cattolica e questione sociale) e
del fascismo.
D’altra parte, lo stesso esplodere della questione del
federalismo è stato visto in questa chiave come il complemento
dell’integrazione europea, in termini di ridimensionamento
del peso del livello nazionale: un modo
di risolvere il problema della legittimità e dell’autorità
dello stato spostandone la collocazione, verso l’alto
(Europa) e insieme verso il basso (regioni). Accanto agli
effetti dell’integrazione europea, che al di là di ogni cosa
implica anche una sorta di sprovincializzazione, hanno
indubbiamente giocato quei medesimi fattori, di saturazione
della coscienza civile, dell’opinione pubblica,
a fronte dei più vistosi fenomeni di degenerazione del
nostro sistema politico e istituzionale, che hanno in larga
parte determinato la spinta propulsiva verso il nuovo
quadro istituzionale, la cosiddetta seconda repubblica.
Le riforme legislative hanno tuttavia preceduto nel
tempo, seppur di poco la crisi istituzionale. Giunti a
questo punto del passaggio istituzionale, considerando
d’altra parte le difficoltà che l’integrazione europea sta
incontrando sulla sua strada, sarebbe ingenuo e perfino
pericoloso alimentare illusioni ingiustificate. L’Unione
Europea si è fatta: ma appare sempre più chiaro che i
sistemi più forti non accettano di farsi carico di tutti i
processi di ammodernamento e ristrutturazione che
l’integrazione comporta.
Ognuno dei partner dovrà autonomamente portarsi al
livello richiesto dal processo di abbattimento delle barriere
nazionali, che non è solo apertura dei mercati, né
solo finanziaria, ma delle culture, dei moduli organizzativi,
infine delle istituzioni. Se a questo si aggiunge che
gli entusiasmi e gli ardori morali che hanno alimentato
il sommovimento istituzionale sono sostanze volatili se
non sedimentano innovazioni stabili, è chiaro come ci
sia ancora molto cammino da fare.
E’ già di enorme importanza il fatto che un nuovo
quadro normativo esista, che le premesse in termini di
enunciazioni di principio siano state poste. Sappiamo,
però quanto sia complessa, resistente al cambiamento,
la megamacchina amministrativa. Tra il dire e il fare, tra
le norme e la loro pratica attuazione, tra le procedure e i
processi reali, c’è di mezzo la marea dei soggetti che, nei
diversi ruoli, sono i protagonisti. Con le loro culture, con
le loro personalità, con le loro identità, con i loro microprogetti
all’interno del macrosistema.
Di qui l’idea, forse assai banale ma purtroppo non ancora
comune, di aiutare il diffondersi attraverso il sistema
pubblico delle innovazioni positive. Questo dobbiamo
cercare di realizzare noi Lions.
Infatti, uno degli scopi del Lionismo, promuovere i principi
di buon governo e di buona cittadinanza, si concretizza
solo sulla spinta ideale di uomini liberi e consci che non
esistono verità imposte, ma la verità. Tutto questo è
richiamato in altri due scopi del Lionismo: incoraggiare
le persone a migliorare la loro comunità ed a promuovere un
costante elevamento del livello di efficienza e serietà morale
ed ancora stabilire la libera discussione di tutti gli argomenti
di interesse pubblico… Un’associazione come la nostra
deve dare un chiaro contributo allo svilupparsi di un
dialogo da condursi all’interno e con questo, tradotto
in messaggio, corredato da grosse forze motivazionali,
poi suffragato da capacità personali, tendere a dare
una comune univocità alle attuazioni verso la società.
Quindi, un chiaro invito ad operare valutandone la portata
quale strumento che promana sempre da una capacità
di costruire un’opinione con conseguenti possibilità
che questa possa essere diffusa attraverso la meditata
volontà dei club di porsi come elemento mediante nella
società in evoluzione, sia come tali nel loro essere all’interno
di una organizzazione, che come singoli componenti
della stessa: uomini pertanto con preparazione e
responsabilità eclettiche e portatori di un attivo dialogo
nella proposta, nel confronto.

* Articolo pubblicato in rivista LION, novembre 2010, pp.38-39.

sabato 5 marzo 2011

TUTTI I LIONS DI BARI IN SEMINARIO ALLO SHERATON

Testo di Giuseppe Dibenedetto

Affrontato il nodo ferroviario di Bari
Realizzazioni, progetti e idee


Presso lo Sheraton hotel, tutti i Lions Club di Bari hanno organizzato un meeting dal tema “Il nodo ferroviario di Bari.
Realizzazioni, progetti e idee” relatori l’ing. Pasquale Borrelli, direttore della RFI di Bari, il dott. Ludovico Abbaticchio, assessore all’Urbanistica e l’assessore ai Trasporti Mario Loizzo della Regione Puglia; moderatore, il giornalista dott. Gustavo Delgado.
L’incontro, presieduto dal presidente del Club trainer di Bari Host, ing. Pasquale Diciommo, idealmente si collega a quello organizzato nel marzo del 1961 dal Lions Club Bari e dal Rotary Bari dal titolo “La stazione ferroviaria di Bari”, alla presenza delle autorità civili, militari, religiose e di un folto pubblico. Il problema del nodo ferroviario fu portato all’attenzione del Consiglio Comunale nel 1898. Ma fu affrontato con serietà trentadue anni dopo dall’architetto Petrucci cui era stato affidato l’incarico del Piano Regolatore. “Costruito nella seconda metà del secolo scorso (XIX sec.) -scrisse nella relazione -ai confini della città ottocentesca, il parco ferroviario ha ostacolato la naturale espansione cittadina, specialmente verso mezzogiorno e verso levante” Il capo compartimento dell’epoca collaborò con l’architetto Petrucci e la soluzione studiata fu quella di spostare il parco ferroviario a sud di circa 1200 metri rispetto a quello attuale, riunendo in un’unica sede tutti gli scali e ubicando la stazione in asse con Corso Cavour. Era una soluzione brillante che avrebbe risolto in maniera radicale il problema. Il trasferimento del-l’impianto liberava una larga area che, per effetto del piano regolatore, veniva a trovarsi nel cuore della futura città, consentendo sull’attuale
sede della ferrovia il tracciato di un lungo viale. Ma l’architetto Petrucci non avrebbe mai supposto che al di là del parco ferroviario sarebbero sorti i più disordinati e sovraffollati quartieri con nessun rispetto per norme edilizie ed igieniche dove la cupidigia e l’avidità di pochi prevalsero sul-l’interesse cittadino. Il piano Petrucci fu accettato dal-l’Amministrazione comunale e approvato dal Ministero LL.PP. in linea tecnica ma subì un arresto per mancanza di fondi. Sul piano Petrucci fu d’accordo anche l’Amministrazione ferroviaria la quale comunque precisò che lo spostamento dell’impianto non essendo La stazione centrale di Bari richiesto da esigenze tecniche, ma solo da problemi urbanistici, non doveva far carico per le spese alle FF.SS. Il problema fu quindi accantonato. Se ne riparlò nel 1942, anno in cui insorgono le prime discordie sulla sistemazione del parco ferroviario: si doveva spostarlo o lasciarlo al posto in cui si trovava? Quale delle due soluzioni era urbanisticamente conveniente? La girandola dei punti di vista fu di breve durata. Nel 1948 il sindaco Di Cagno indisse una riunione di tecnici per ordinare il piano regolatore della città ed esaminare quindi le eventuali soluzioni per il “fiume di ferro” -Dopo numerose riunioni i tecnici indicarono nello spostamento della stazione in contrada S.Giorgio (un centinaio di metri oltre il passaggio a livello di via Brigata Regina, verso Foggia) la soluzione maggiormente suffragata, mentre risultarono in netta minoranza le proposte di interrare o di sopraelevare le linee ferroviarie, nonché quella dell’architetto Petrucci per il trasferimento a sud. Però in quella riunione non si parlò di stazione di testa, in quanto si riteneva che tale progetto fosse decisamente scartato dall’Amministrazione ferroviaria per onerosità di esercizio. Gli architetti Piacentini e Calzabrini nel loro piano regolatore, ritenendo che la posizione della stazione era baricentrica rispetto al futuro ampliamento a sud e a sud-est, ritennero che non sarebbe stato né comodo né pratico spostarla. Perciò come una qualsiasi città attraversata da un fiume anche Bari doveva saldare le sue parti a mezzo di ponti, con parapetti chiusi, tipo Ponte Vecchio di Firenze o Ponte di Rialto di Venezia, con botteghe con portici o eleganti vetrine da costruirsi in asse a corso Cavour e via Mazzini. Gli architetti Piacentini e Calzabrini completarono la loro proposta suggerendo la deviazione della Bari-Lecce su un tracciato parallelo a quello della Sud-Est e variando a nord la Bari-Taranto. Tali soluzioni aggiravano il problema, senza risolverlo e furono facili e immediate le critiche. L’architetto Chiaia era favorevole allo spostamento della stazione ferroviaria in contrada S.Giorgio, in situazione poco più arretrata rispetto a via Brigata Regina per cinque motivi fondamentali:

1) liberare la città dalla cerchia dei binari e dai cinque passaggi a livello delle FF.SS- e della Sud-Est;

2) eliminare gli inconvenienti del passaggio dei treni: vibrazioni, fumo, rumori, eccetera;

3) raggruppare le quattro stazione in un solo impianto con la soluzione di evidenti problemi di traffico;

4) garantire il minore turbamento dell’esercizio ferroviario durante la costruzione dei nuovi impianti;

5) un basso costo sia di impianto sia di esercizio.

La linea ferroviaria avrebbe dovuto girare a nord del Cimitero, ridiscendere con andamento nord-sud verso sud e raccordarsi con ampio raggio alla Bari-Lecce presso a poco in corrispondenza della zona di S. Giorgio prima di Torre a Mare. L’edificio della nuova stazione sarebbe risultata in asse all’attuale tracciato alla distanza di circa due chilometri, a cavallo tra la zona residenziale e quella urbana, vicino al porto e all’aeroporto. Al posto del “fiume di ferro”, su una superficie di seicentomila metri quadrati, si sarebbe potuto creare una nuova arteria a molte carreggiate che partendo dal piazzale della nuova stazione, per una lunghezza di oltre tre chilometri, si sarebbe innestata sulla statale per Mola, costituendo così, con l’altra grande arteria di corso Cavour e con l’anello del lungomare il tracciato fondamentale del sistema viario di Bari, Tale soluzione avrebbe sbloccato totalmente i popolosi quartieri a sud dell’attuale tracciato ferroviario e avrebbe offerto la possibilità di utilizzare, senza alcuna ulteriore spesa per l’Amministrazione comunale, la superficie liberata. La soluzione sostenuta da coloro che avrebbero voluto la stazione di testa in piazza Roma, avrebbe portato un riscatto della zona attraversato dal “fiume di ferro” nel tratto corso Cavour-Rione Japigia e la liberazione dei quartieri e delle frazioni posti al di là della ferrovia, ad eccezione del rione Picone. L’Amministrazione delle FF.SS., che aveva da sempre avversato la soluzione più logica, la stazione di testa di piazza Roma, agli inizi degli anni 60, era decisa a mettere in discussione lo studio di massima. Per realizzare ilprogramma di spesa per l’attuazione della soluzione proposta dal piano regolatore, circa undici miliardi di lire, ne sarebbero bastati poco più di un terzo per realizzare l’altra proposta, secondo il parere dell’ingegnere Buttiglione. Questi suggeriva dichiedereall’Amministrazione delle FF.SS. maggiore arretramento della stazione di testa in piazza Roma per aprire altri due “scorrimenti” su via Melo e via Argiro. Comunque l’Amministrazione ferroviaria affermò nella maniera più esplicita che il problema era di natura urbanistica e che non riguardava l’Azienda di Stato. Pertanto le opere non potevano né dovevano andare a suo carico ma dovevano essere fatte dall’Amministrazione comunale in attuazione del piano regolatore. Negli anni Novanta il comune di Bari si rese promotore di iniziative concrete per il nodo ferroviario che hanno grande rilevanza per l’assetto urbanistico ed ambientale della città in generale, considerando le aree ferroviarie sia di RFI che delle Appuro Lucane, da dismettere e riqualificare, l’eliminazione dei passaggi a livello e il tentativo di restituire permeabilità tra le due parti della città separate dai fasci di binari. L’amministrazione Di Cagno Abbrescia aveva infatti siglato con le Ferrovie un accordo che non prevedeva alcun interramento o sopraelevazione dei binari che tagliano in due la città. C’era stato anche il tentativo di individuare soluzioni tecniche alternative al tracciato attuale con l’ipotesi della deviazione verso sud in parallelo alle Sud Est che si avvicina alla costa in prossimità di Torre a Mare. Questa soluzione del “collo d’oca” non fu portata avanti nonostante lo stesso tema fosse stato già trattato addirittura nel piano regolatore degli anni Trenta. Ormai la situazione di Bari nei riguardi del suo sviluppo urbanistico e del traffico, entrambi strozzati dalla cintura di ferro, era diventata tragica. La pratica non poteva più essere procrastinata ed era da mettere in cima a tutte le altre questioni interessanti la città. Lo avevano riconosciuto coloro che investiti dalle istituzioni avevano affrontato le problematiche per l’assetto di Bari. Petrucci, Calzabrini, Quadroni e non ultimi gli architetti Bohigas, Buffi, Fuksas che avevano sentenziato:” Cancelliamo la ferrovia”, “guerra alla ferrovia”, “liberate la città dal fiume di ferro” Finalmente - come ha precisato l’assessore Abbaticchio - dopo numerosi passaggi amministrativi e politici, il 17 marzo 2007 il Ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro, il Presidente della Regione Puglia Nichi Ventola, il Sindaco di Bari Michele Emiliano e il delegato RFI Michele Mario Elia hanno sottoscritto presso la Prefettura di Bari il protocollo di intesa definitivo per la realizzazione delle Opere finanziate dal Programma Operativo Nazionale (PON). Del finanziamento complessivo destinato alla Puglia ottocentoquattro milioni di euro saranno impiegati per realizzare a Bari il riassetto del nodo ferroviario, mentre circa centosettanta milioni saranno impiegati per la costruzione della terza mediana bis. Nello specifico per il riassetto del nodo ferroviario, i fondi PON copriranno il 60% dei costi mentre il restante 40% sarà finanziato dalla Regione Puglia sempre con fondi ministeriali. Gli interventi previsti dal riassetto del nodo ferroviario sono: a nord eliminazione di tutti i passaggi a livello con l’interramento dei binari nel tratto della linea delle ferrovie dello Stato tra Palese e S. Spirito, a sud eliminazione dei binari tra Madonnella e Japigia, deviando l’attuale linea in via Spruzzi all’altezza della stazione delle Sud-Est. A Japigia, per evitare il canalone, i binari scavalcheranno il quartiere a ovest, oltre il depuratore, per poi riconnettersi alle spalle dell’hotel Majestic. Si tratta di opere estremamente impegnative – ha affermato l’assessore Abbaticchio – che nel giro di cinque anni potrebbero cambiare radicalmente il volto di Bari, eliminando la barriera costituita dai binari e liberando una serie di spazi attualmente al servizio delle ferrovie che dovranno essere riqualificati e restituiti alla città. Per l’assessore Loizzo questa è un’occasione storica per la città: si tratta di riqualificare complessivamente l’assetto urbanistico e dei trasporti ricongiungendo intere porzioni dell’abitato urbano al mare. Quello che sembrava un sogno impossibile da realizzare è diventato un progetto concreto. Nel concludere, il governatore ing. Elio Loidice ha sottolineato il valore epocale del progetto di riassetto, sintomatico di un rinnovato approccio al governo della cosa pubblica, che migliorerà l’accesso e la fruibilità del capoluogo della Regione e della sua area metropolitana da parte di tutti i pugliesi. Il ruolo strategico di Bari rafforza tutto il territorio da Santa Maria di Leuca alla provincia di Foggia.

Giuseppe Dibenedetto in RIVISTA DISTRETTO LIONS 108AB,n.68, maggio-giugno, a,s.2007-2008

LE FONTI PER LA STORIA DI GRAVINA NELL'ARCHIVIO DI STATO DI BARI *

Testo di Giuseppe Dibenedetto

1 Introduzione

L’Archivio di Stato [1] è un ufficio pubblico incaricato della conservazione dei documenti di Stato e degli atti storici che interessano lo Stato stesso.
Naturalmente la maggior parte dei documenti archivistici presenta quell’immagine che il potere ha scelto di conservare di se stesso per il futuro, un’immagine un po’ costruita che il ricercatore deve considerare come tale per poi mediare le due culture, quella presente e quella passata, in un’analisi storica quanto più corretta possibile.
La dottrina archivistica ricorda che è necessario accostarsi alle fonti archivistiche con metodo, cercando un rapporto non con il singolo documento estrapolato ma con la totalità dei documenti che costituiscono, in una unità inscindibile, l’archivio di un Ente o di un Istituto.
Pertanto si rileva propedeutica ad una ricerca documentaria più accurata la conoscenza delle istituzioni e delle magistrature di una determinata epoca, conoscenza indispensabile per lo studioso che voglia più agevolmente risalire all’organizzazione politica, amministrativa e giudiziaria di un territorio e intenda, attraverso tali segmenti, recuperare una dimensione storica il più possibile vicina alla realtà.
Oggi, attraverso un’analisi più approfondita di certe strutture, quali le strutture demografiche, le strutture familiari, le strutture patrimoniali, è possibile ricomporre le attività vitali di una popolazione del passato, sempre che sia ben indirizzato il rapporto con il documento e con l’archivio.
Tutto è oggetto di storia con pari dignità: i documenti fiscali dei governi, i mercuriali o liste dei prezzi ufficiali, i registri dei dazi, i testamenti, i contratti, i registri dello Stato Civile o della Leva; ogni serie omogenea di dati, se adeguatamente interrogata può contribuire a ricreare uno spessore storico attraverso le sue risultanti economiche e sociali, e può inoltre meglio documentare e chiarire quelle dinamiche interne che hanno consentito lo strutturarsi delle classi sociali, del potere pubblico, delle rivolte sociali.
Il nuovo ricercatore quindi, favorito dai più recenti parametri storiografici, può rivolgere a quei documenti, che furono scritti e conservati per tutto un altro fine, delle nuove domande, sicuro di poterne ricavare elementi utili per rischiarare quelle tematiche sempre escluse dalla storia.
Ed ecco che la storia locale, non appesantita dalle abusate etichette proprie della tradizione storica nazionale, può offrire l’occasione per verificare l’opportunità di tali proposte metopologiche. Infatti la formulazione di queste nuove domande rivolte ad una documentazio­ne proveniente da un ambito circoscritto consente l’elaborazione di una storia che, abban­donato il momento puramente erudito e celebrativo e la logica del localismo occasionale, si è trasformata da storia “periferica” o “marginale” in storia “totale”, proprio grazie alle mol­teplici coordinate che emergono dai rinnovati itinerari documentari.
In questa fase di graduale aggiornamento l’Archivio si propone come guida privilegia­ta per una migliore consultazione e selezione dei percorsi culturali da intraprendere, percor­si che non intendono convogliare verso conclusioni predeterminate, ma piuttosto indicare degli orizzonti sempre problematici e degli itinerari aperti ad ogni possibile indagine.
La logica della ricerca, già di per sì formativa per il ricercatore, necessita di adeguati stru­menti e di nuove tecniche esplorative.
Il presente lavoro vuole proprio offrire agli studiosi interessati un panorama sulla docu­mentazione relativa alla città di Gravina, o meglio, vuole suggerire dei processi più vasti di studio sulla storia dei suoi abitanti che si esprimono e ci comunicano la propria “cultura” at­traverso gli atti notarili, le rendite catastali, le lotte bracciantili, le proprietà di case o di ter­reni, l’organizzazione sanitaria e ospedaliera, i crimini e le conquiste sociali.
Ma la “cultura” dei Gravinesi non è soltanto la loro cultura, essa può rispecchiare o illu­minare gli aspetti della cultura di altri corregionali o connazionali loro contemporanei, per cui un tale approfondimento si rivela senz’altro necessario per lo sviluppo di una storia to­tale e comparata.
Con questo invito alla ricerca affidiamo agli studiosi l’alto compito di scegliere e defi­nire l’impianto illustrativo più vicino ai propri interessi e più funzionale a quella divulgazio­ne sempre più ampia e organizzata della storia di tutti noi.

2 Diplomatico notarile

Il tabulario diplomatico (1350‑1803) è formato da 1318 pergamene consegnate nel 1942 dall’archivio notarile di Bari e consistenti quasi tutte in vecchie copertine di volumi di atti notarili.
In particolare contengono diplomi, bolle, privilegi, brevi, decreti, frammenti di codici membranacei (la maggior parte sono fogli di messali e di antifonari alcuni dei quali minia­ti e con note musicali).
Le pergamene Lupis (1405‑1695) contengono 156 rogiti appartenenti alla nobile fami­glia Lupis di Bitonto dalla quale furono acquistati nel 1942.
Le pergamene del monastero femminile di S. Giacomo (1550‑1688) sono in tutto 17. Furono rinvenute presso mons. Nitti all’atto della sua morte e consegnate all’Archivio di Stato di Bari dagli eredi.
La Miscellanea si compone di nove pergamene della famiglia Faenza di Modugno e acquistate all’asta in Inghilterra, di un privilegio di Carlo II d’Angiò,4 giugno 1294, e di un codice membranaceo di Carte 30 contenente Capitoli et gratie concessi alla città di Bari il 14 giugno 1527 da Sigismondo di Polonia e Bona Sforza, donata dalla famiglia Guarnieri.
Il fondo documentario più importante per quantità e qualità è senz’altro quello costitui­lo dagli atti notarili. Gli atti notarili conservati presso l’Archivio di Stato di Bari assomma­no ad oltre 30.000 (1445‑1888).
Il volume in cui sono registrati gli strumenti stipulati dal notaio si chiama protocollo. Questo iniziava con la enunciazione del nome del notaio e dei termini cronologici dei do-cu­menti in esso riportati. All’inizio di ogni atto, a sinistra del foglio, si metteva il cosiddetto oc­chio, breve specifica del contenuto dell’atto: es. emptio cuiusdam domus, testamentum etc.
L’insieme dei protocolli redatti da ogni notaio durante la sua attività professionale costi­tuiva la scheda. Una volta cessata l’attività professionale, l’intera scheda veniva trasferita presso altro notaio in attività che ne assumeva la conservazione connessa alla autorizzazio­ne di trarne copie eventualmente richieste o a completarne atti lasciati incompiuti.
Il trasferimento dei protocolli del notaio defunto al notaio subentrante era spesso ogget­to di contrattazione a titolo oneroso tra questi e gli eredi del collega defunto. I contratti che risultano più numerosi dei nostri protocolli notarili sono quelli di compravendita. Il tipo più ricorrente è quello riguardante il trasferimento di proprietà di terre, chiara ed esplicita dimo­strazione che la vita economica dei comuni di Terra di Bari, come del resto di quasi tutto il Mezzogiorno, era imperniata quasi esclusivamente sull’attività agricola e sul reddito fon­diario.
Notevole è anche il numero delle compravendite di case e di animali, soprattutto caval­li, mentre scarso è lo scambio a livello commerciale.
Le case negli atti di vendita, sono minuziosamente descritte negli elementi che le com­ponevano e che, per i seco. XVI‑XVIII, risultano quasi sempre gli stessi: cellario, cisterna di acqua dolce, buca di acqua salata, sale, camera di sopra, terrazze, scale di pietra, con ag­giunta di giardini pomorum aureorum o di logge scoperte con alberi di ulivo o di trappeti per macinare le olive. Il pagamento era raramente in contanti. Nella maggioranza dei casi, infat­ti, il compratore versava una parte della somma al momento dell’acquisto e si impegnava a pagare il resto fissando una rata annua e una scadenza unica per l’intera somma, scadenza che di solito si faceva coincidere con qualche festività, per es. Natale o Pasqua. Si verifica­va pure di frequente il caso in cui l’acquirente, non avendo per le mani la cifra convenuta, accettava di versare un interesse annuo che variava dall’8 al 10% della somma pattuita, pen­dente solutione, cioè fino a quando non avesse sciolto il debito.
Altri atti che troviamo sono le donazioni che consistevano in linea di massima in lasci­ti di denaro a beneficio di conventi, ospedali, o anche di congiunti o amici da ricompensa­re. Si tratta, in ogni caso, di donazioni stipulate inter vivos che si differenziano da quelle de­nominate mortis causa le quali avevano efficacia solo dopo la morte del donante e nella so­la ipotesi che il donatario gli sopravvivesse. Le donazioni contribuivano a mostrare la distri­buzione della ricchezza oltre che alcuni aspetti particolari degli usi cittadini e della vita so­ciale. Anzi, proprio sotto quest’ultimo aspetto, è possibile analizzare gli atti di donazione poiché essi non costituiscono un’azione imposta da leggi e consuetudini, ma un contratto col quale, per spirito di liberalità, una parte arricchisce l’altra, disponendo a favore di questa di un suo diritto.
Un contenuto simile presentano gli atti di cessione e rinuncia che in larga misura servo­no per sopperire ai bisogni economici di parenti e congiunti in caso di istituzione di dote, di pagamento di debiti, e in tutti quei casi in cui la rinuncia ad un proprio diritto ereditario o ad un proprio bene mobile o immobile comporti un concreto beneficio per le persone care.
Il prestito consisteva quasi sempre in denaro. In ogni caso la somma veniva prestata co­me sussidio dello stato in cui si trovavano i richiedenti. Spesso il contadino, che viveva del­le sole risorse della sua terra, era costretto a chiedere qualche aiuto finanziario per poter ul­timare le coltivazioni. Il più delle volte la restituzione avveniva con gli stessi prodotti del­la terra, per es. frumento, olio, ecc. corrispondente al credito ricevuto.
Dall’esame dei vari atti non risulta che i prestiti abbiano avuto di mira l’usura e l’interes­se. Erano inoltre concessi, potremmo dire, quasi a titolo amichevole e non ponevano condi­zioni tali che non potessero essere rispettate e mantenute. Si trattava, in un certo senso, di an­dare incontro a necessità ricorrenti, di vita quotidiana. D’altra parte quei prestiti, anche se pri­vi di lucro, non erano concessi senza un criterio di oculatezza, dato che i creditori avevano qualcosa di sicuro, se si escludevano gli eventi naturali, su cui rivalersi.
L’atto di procura veniva stipulato piuttosto frequentemente. E la ragione è da ricercar­si nella necessità di affidare ad un’altra persona, congiunta o estranea che fosse, il disbrigo di un impegno cui non si poteva far fronte per la lontananza della sede e altre ragioni. La pro­cura era dettata e spesso imposta da esigenze pratiche che andavano risolte nel modo più sem­plice e sbrigativo.
Gli atti di affitto riguardavano soprattutto case, locande e terre. Per quanto riguarda le ca­se è interessante notare che, negli atti notarili dei seco. XVI ‑ XVIII, alcune delle clausole contrattuali sono costanti e rispondono alle consuetudini cittadine: locazioni per un triennio, pagamento da effettuarsi tertiatim ed anticipatamente, impegno da parte del proprietario al­la manutenzione, alle indispensabili riparazioni alla difesa da eventuali pretese avanzate da terzi sull’immobile concesso in fitto. La data solita per l’inizio e la scadenza di questo tipo di contratto era di solito il 15 agosto, sia che venisse stipulato prima, sia che dopo tale me­se. In quest’ultimo caso erano detratti ai tre anni i mesi e i giorni eventualmente già trascorsi.
Un’altra importante fonte di rendita era costituita dall’affitto di orti, giardini, parchi e masserizie. L’affitto della terra decorreva dal tempo della mietitura e della vendemmia, o trattando­si di olive dal 30 novembre, dopo la raccolta delle olive, dal termine insomma dell’anno agricolo.
Una trattazione a parte meritano gli atti testamentari e i capitoli matrimoniali.
Dall’esame dei protocolli notarili si rileva che di solito il notaio si recava di persona pres­so la casa del testatore, del quale viene specificato il nome insieme alla località nei cui pres­si è situata l’abitazione. Poiché l’elemento fondamentale di ogni testamento esattamente im­postato deve essere la istituzione dell’erede, il testatore ne specifica prima di tutto il nome.
Questa prima parte, che appare immutata in ogni atto testamentario, ne costituisce l’in­troduzione obbligatoria scritta in latino, mentre la seconda parte, quella in cui erano elenca­ti i legati, le eventuali descrizioni dei beni, e le altre clausole, erano quasi sempre redatte in volgare. Era prassi comune che ogni testatore lasciasse in beneficenza per mali arrecati e decime non pagate, una somma quasi sempre uguale, anche se variamente indicata. In quasi tutti i casi l’eredità andava ai legittimi eredi rappresentati in primo luogo dai figli e, in mancanza di questi, dai parenti più prossimi.
Non è raro il caso in cui il testatore lasciava tutti i propri beni ad un ente religioso.
Il testore stabiliva poi il luogo in cui desiderava che venissero conservati i suoi resti. Specificava cioè il nome della chiesa, in cui vi era la cappella di famiglia, oppure il sepol­cro della confraternita alla quale apparteneva (quest’ultimo era il caso più frequente).
Se venivano nominati eredi i figli del testatore, alla moglie spettava generalmente l’usu­frutto dei beni ereditati a condizione che conservasse il lutto.

Doc. 1 1592 gennaio 29, Gravina

Donato Antonio de mastro Tota di Gravina acquista da Tommaso del defunto Angelo de Clementellis della stessa città due pezzi di terra in territorio di Gravina, uno dell’estensione di 1 carro e 24 tomoli circa sito in località detta “la rifezza” e l’altro dell’estensione di 24 tomo­li circa sito in località detta “vado Cassandro”, al prezzo di 120 ducati in carlini d’argento che si impegna a pagare entro il mese di agosto 1592. Se impossibilitato a farlo, dovrà versare a par­tire da mese di dicembre successivo dieci ducati e mezzo ogni anno in tre rate a titolo di affit­to fino al saldo dell’intera somma. Nel caso in cui non verserà la somma di dieci ducati e mez­zo per un anno, dovrà pagare l’intera somma insieme con le terre dovute. Se, infine, Donato An­tonio non è in condizione di pagare, si impegna a versare i centoventi ducati a Tommaso quan­do questi dovrà assegnare la dote alla sorella Beatrice de Clementellis. In caso di morte di que­st’ultima prima del matrimonio, il debitore si obbliga a pagare la somma di dieci ducati e mez­zo ogni anno fino all’estinzione del debito di centoventi ducati.

ASB, Fondo diplomatico, Tabulario diplomatico, perg. n. 484.

Doc. 2 1597 luglio 31, Gravina

Mastro Ferdinando de Todaro di Gravina giunge ad una transazione con Vincenzo del de­funto Angelo de Melio, agente in qualità di tutore di Leonardo figlio del defunto Melio de Melio, della stessa città, a seguito della lite intercorsa tra i medesimi a causa della vendita di un pezzo di terra aratoria della estensione di 27 tomoli ca., sito in territorio di Gravina in lo­calità detta “S. Nicola la macchia”, fatta in passato da Melio de Melio a mastro Ferdinando de Todaro per la somma di cinquantaquattro ducati. In virtù della presente convenzione Vincenzo a nome di Leonardo rinuncia a rivendicare la proprietà di quella terra in quanto bene dotale del­la defunta Silvia de Cola Vorrillo, madre di Leonardo, e mastro Ferdinando si impegna a ver­sare a Vincenzo, tutore, entro il mese di maggio 1598 la somma di quaranta ducati da impie­gare nell’acquisto di annui introiti fino al compimento della maggiore età di Leonardo.

ASB, Fondo diplomatico, Tabulario diplomatico, perg. n. 506. Entrambi gli atti sono stati rogati dal no­taio Leonardo Antonio Mosca di Gravina, scheda costituita di 28 protocolli (1567‑1607).

Doc. 3 1644 gennaio 30, Gravina

Testamento di don Angelo Passamonte di Gravina.
Don Angelo Passamonte di Gravina nomina la venerabile chiesa “Maria delle Grazie” ere­de universale dei suoi beni consistenti in: una casa sita nel borgo di Gravina confinante con la casa del dott. Guido de Guida e le case del fu Ottavio Torino; un pastina di 10 rasole sito in “Grotta Marallo”; 12 tomoli di grano che riceverà da Antonio Santullo; una rimanenza del cre­dito di 49 ducati, che riceverà dal dott. don Antonio Maiorani, ridotto dei 14 ducati già da lui restituiti.
A sua nipote Fasana Clementelli lascia: 100 ducati dei quali 40 ducati andranno al Reverendo Capitolo per le spese di sepoltura; due giumente; tutte le suppellettili e le robe del­la sua casa. Al canonico don Francesco Santomaso lascia la “suppelliccia” conservata presso il mona­stero di Santa Maria del Piede e a don Pietro Tucci un’altra “suppelliccia” con lo “scardel­lo” [2] e la chiave conservati nella sua casa.
Il testatore, inoltre, dispone affinché: i canonici Santomaso e Tucci, con il ricavato della vendita di un ferraiolo di pelliccia nera e una veste di panno “cerrito” [3], facciano celebrare del­le messe per la sua anima; il Capitolo venda i beni ereditati impiegandone il ricavato per i fab­bisogni della chiesa e celebri ogni sabato, in perpetuo, una messa in suffragio per la sua anima; il suo corpo venga inumato secondo la procedura destinata ai prelati, con rito funebre celebra­to da don Pietro Tucci.

ASB, not. Angelo Scalesio, prot. 2975 aa. 1640‑ 1645, cc. 3r - 5r

Doc.4 1698 dicembre 4, Gravina

Il canonico Sig. don Francesco Santomasi “maiordomus” dell’illustrissimo ed eccellen­tissimo signor don Domenico Orsino, Duca di Gravina, of ficia, con il clero secolare e regola­re nella chiesa del Sacro Monte dei Morti detto volgarmente il Purgatorio, una messa in memo­ria dell’illustrissima ed eccellentissima signora donna Ippolita Tocco duchessa di Gravina, morta alle ore 15 del dì 4 dicembre 1698.
“... il qual cadavere con pompose e ricche vesti vestito, consistentinoin un manto con fon­do d’argento e i fiori d’oro scaccato con sottanello del suddetto drappo, con guarnimento di mer­letto d’oro di punti di Spagna, alto un palmo, con un altro sottanello liscio di saia scarlatino con merletto d’argento, una scuffia di merletto bianco di fiandra piena di vili bianchi guarnita tut­ta di nocche a color pensi, manichette e braccialetto del medesimo merletto legati con fettuc­cia lustrina canna secca, un par di pianelli ricamati d’argento col fondo di drappo incarnato con merletto d’argento et oro venetiano guarniti, alcune devotioni al collo e l’oricchine d’oro; quel cadavere posto dentro un bauglio con fodera di broccato d’argento di color incarnato e mata­razzo con fodera di taffettà verde, s’è consignato al reverendo Don Giacomo Antonio D’Ecclesiis attuale sacristano maggiore di detta venerabil chiesa, il quale nella presenza nostra nella forma di sopra distintamente descritta ha ricevuto il suddetto cadavere con tutte le suscrit­te robbe dovendolo far riponere nel solito avello degl’altri Signori di detta casa Eccellentis­sima...”

Ass. not. Francesco Oronzo Della Francia, prot. n. 6613 a. 1698, cc. 138 r ‑ v.

Doc. 5 1712 giugno 9, Gravina

Il signor Nicolò Bartilomo, erario dell’ecellentissimo signor duca di Gravina, fitta, in suo nome, al reverendo primicerio don Giacomo Molinari, ai canonici don Michele Giannone, prio­re della cappella del Santissimo Crocifisso della cattedrale, a don Giuseppe Marculli, procu­ratore della Santissima Carità, a don Leonardo De Leonardis ed infine a fra’ Vincenzo Maria Bertucci, procuratore del venerabile convento di S. Tommaso, la difesa detta “dell’Aspro” di proprietà del duca, situata nel territorio di Gravina, da usare come pascolo delle pecore.
Il fitto, della durata di un anno, avrà inizio dal mese di ottobre del corrente anno, fino al me­se di maggio dell’anno successivo, quando cioè avverrà la transumanza. La pigione convenu­ta è di 700 ducati in moneta d’argento, da pagarsi entro il 23 aprile 1713. Detto erario si obbli­ga a non far entrare nella difesa animali appartenenti all’eccellentissimo casato, se ciò si doves­se verificare, una metà di questi spetterà al duca, l’altra metà ai fittuari.

ASB, not. Giuseppe Della Francia, prot. n. 6626, a. 1712, cc. 123r‑124v.

Doc. 6 1770 maggio 8, Gravina

Donna Caterina Pomarici, vedova del fu don Oronzo Santomasi, di Gravina nomina eredi universali di tutti i suoi beni esistenti in Gravina e nella città di Bari, i nipoti sig. canonico don Nicola e le zitelle in capillis donna Maria Giuseppa e donna Maria Giovanna Pomarici, alla mor­te dell’ultimo di questi, i figli del nipote don Domenico Antonio Pomarici.
Le nipoti Donna Giuseppa e Donna Giovanna nel caso vogliano farsi monache potranno prendere dall’eredità tutto il denaro che necessita per il detto scopo, se invece intendono pren­dere marito riceveranno 3.000 ducati ciascuna come fondo dotale. In mancanza di eredi l’ul­timo dovrà dare disposizioni affinché, con l’eredità, vengano celebrate messe in perpetuo e ad tempus in suffragio per l’anima della testatrice, del fu don Oronzo, del fu don Giovanni Grazio, del canonico don Fermante, di don Antonio, di suor Maria Rosaria, di suor Arcangela e di suor Giovanna Santomasi. donna Caterina Pomarici inoltre, lascia: alla nipote sig. Donna Ma­riangiola Pomarici, 3.000 ducati di dote da ricevere, senza interessi, entro 10 anni; in caso do­vesse rimanere vedova e senza figli, diventerà usufruttuaria dell’eredità insieme agli altri eredi; a suor Maria Rosaria, suor Giovanna e suor Arcangela Santomasi un vitalizio annuo di 30 du­cati insieme a farina, caciocavallo, zucchero, formaggio e ricotta, oppure 50 ducati annui ciascuna; alla nipote suor Maria Crocifissa Pomarici un vitalizio annuo di 6 ducati; alle serve, che alla sua morte saranno in servizio, 20 carlini ciascuna.
La testatrice dispone affinché: venga celebrata una messa quotidiana, con una elemosina di 10 grana, nella chiesa del venerabile convento S. Tommaso d’Aquino dei padri domenicani, in suf­fragio dell’anima del suocero, dei cognati e dei discendenti del casato Santomasi; in mancan­za di discendenti, con l’eredità rimanente, siano celebrate delle messe da monsignor Vescovo. Di tale testamento è nominato esecutore l’illustrissimo reverendo monsignor don Nicolò Cicirelli, vescovo di Gravina.

ASB, not. Pietro della Nave, prot. n. 16726, a 1770, cc. 146 a

Doc. 7 1826 ottobre 29, Gravina

Contraenti: Don Giovanni Gramegna del fu Filippo e donna Anna Rosa Ronchè del fu dottor don Pietro, minore
dote assegnata: Donna Anna Rosa Ronchè riceve da donna Balzana La Manna, sua zia, la metà di tutti i suoi beni presenti e futuri, con le riserve dell’usufrutto a vi­ta a favore di essa donante

Donna Edvige Rizzi, madre di Giovanni Gramegna, assegna in dote al futuro sposo una me­tà dei suoi beni, ed un terzo della rimanente parte consistente in: un vigna di viti di uve con po­chi alberi fruttiferi sita in contrada “Guardiadatte”; un comprensorio di vigne, diviso in due pez­zi in contrada detta “Alborello”, con diversi alberi fruttiferi con annessa una lamia; una casa pa­lazziata sita in Gravina, nella strada detta “Recollo”, formata da diversi membri soprani e sot­tani, con cantina e sotto cantina, con i rispettivi palmenti e due torchi per la pigiatura dell’uva, un quartino costruito in un antico camerone dato in enfiteusi alla cappella del Santissimo Sa­cramento della cattedrale; una piccola casa consistente in una stanza soprana ed un sottano, ad angolo tra la strada “Recollo” e la strada “Gatte o Marra”; 3 cavalli, suppellettili di case ed “or­digni di cantina”, del valore di 454 ducati e 55 grana; un credito di 2500 ducati da Don Vincenzo Scardinale di Gravina.
Donna Edvigia Rizzi fa carico al futuro sposo anche della metà dei debiti consistenti in 2333 ducati e di due canoni annui rispettivamente di 2 ducati e 50 grana e di 1 ducato e 50 gra­na da versare alla cappella del Santissimo Sacramento della Cattedrale.
Condizioni e patti: lo sposo si impegna a custodire e tutelare la dote con la promessa di as­segnare un vitalizio, alla madre donante.

ASB, not. Gaetano Della Nave, prot. n. 23724, a. 1826, cc. 303r‑309v.

3 Sacra Regia Udienza

Ferrante I nel riformare gli ordinamenti politici e giuridici istituì in tutte le province del regno (eccetto in Terra di Lavoro e Molise) le Regie Udienze provinciali.
La Regia Udienza di Apulia che si chiamò sacra perché presieduta dal principe Federico, figlio di Ferrante I, fu istituita in Lecce. Essa ebbe competenza sulle province di Terra di Bari e d’Otranto, che formavano allora la regione Appula con potestà sui tribunali del demanio e dei baroni e con diritto riservato a conoscere delle cause feudali quaternate e a nominare i bali e tutori dei feudatari. Nel 1586 la Regia Udienza di Lecce fu sdoppiata e fu creata quel­la di Terra di Bari con sede in Trani, innalzata a capoluogo della circoscrizione sotto il Vicereame del duca di Ossuna. Con rescritto del 17 dicembre 1583, il viceré nominò presi­de della provincia di Terra di Bari Diego de Vergas conferendogli la facoltà di scegliere “a suo piacere” la città nella quale fissare la residenza dell’udienza; il nuovo preside scelse Bari come sede del proprio ufficio. Il suo successore, a seguito del provvedimento di Filippo II del 24 giugno 1585, si trasferì a Trani dove, nel luglio del 1586 l’Udienza ebbe la sua sede definitiva nel castello di Trani, poi nel 1667 nell’allora piazza Navarra, ora piazza Battista, e finalmente nel 1790 nel palazzo Della Regia Udienza, ora sede della Sezione di Archivio di Stato. Nel febbraio 1799, dopo la proclamazione della Repubblica napoletana e durante tutto il periodo in cui la provincia fu “repubblicana” la vecchia S.R.U. mutò la propria de­nominazione in “Tribunale provvisorio di giustizia” e, dopo pochi mesi, nel maggio 1799, con il ripristino dell’autorità monarchica, la S.R.U. riprese regolarmente a funzionare sino alla trasformazione degli organi giudiziari realizzata nel 1806 da Giuseppe Bonaparte, il qua­le alla S.R.U. provinciale, sostituì in materia penale le Corti criminali, istituite in ogni pro­vincia. Le Regie Udienze provinciali erano composte di un preside” [4], senza voto salvo che non fosse laureato, di un caporuota, di tre uditori, di un avvocato fiscale, di un avvocato dei poveri, di un cassiere per la riscossione dei diritti di cancelleria e delle multe di inquisito­ri, di un cancelliere, di un segretario, di addetti, di uscieri, di alibardieri e della compagnia di campagna.
Esse esercitavano prevalentemente funzioni giudiziarie, decidendo nelle cause civili e criminali, tranne quelle privilegiate, in prima istanza per determinate materie, in appello sui decreti emanati dalle Corti locali sia regie sia baronali.
Il preside era anche il governatore generale della provincia e come tale aveva competen­za su tutte le faccende relative all’annona e alla grassa, sugli affari ecclesiastici, amministra­tivi, pubblici e comunali, sulla direzione delle poste e procacci, su quanto occorresse per le esazioni fiscali, sia dirette del catasto, le cui operazioni si affidavano ad un solo percettore per tutta la provincia, sia indirette come prelievo del tributo per mezzo di dazi su sali, tabac­chi, salnitri, polvere, carta bollata, dogana, ecc. Per tutto ciò corrispondeva sia con le reali officine, sia con la segreteria e specialmente con il tribunale della Regia Camera della Sommaria.
Ogni forma di polizia, economica, esecutiva, correzionale, oltre alla giudiziaria, qualunque oggetto o momentanea disposizione di pubblica sicurezza, nonché i castighi di arresto, di bastonate, di frusta, di berlina erano cose dipendenti tutte dalla volontà del preside. Sue dirette attribuzioni erano anche la sicurezza delle coste e del commercio in caso di guerra, di pirateria, di peste e di pubblica salute. Percettori, governatori baronali e regi, capireparto dovevano riferire a lui soltanto e da lui ricevere ordini.
Il preside disponeva, come credeva più opportuno, di tutte le forze della provincia; inol­tre poteva riferire al re; quando lo riteneva necessario, sia a voce, sia per iscritto, qualunque affare senza passare per la trafila delle reali Segreterie. Egli era, insomma, l’unico punto di contatto tra la capitale e la provincia, tra il re e i suoi sudditi.
La documentazione del fondo archivistico Sacra Regia Udienza conservato nell’Archivio di Stato di Bari rispecchia, dunque, la varia e multiforme attività del preside in Terra di Bari e ci dà, pertanto, un quadro generale, perfettamente aderente alla realtà dei tempi di tutti gli aspetti e problemi della vita pugliese durante il XVII e XVIII secolo.
La S.R.U. non è soltanto una corte di giustizia ma è anche una struttura amministrativa che trasmette, al di là delle infrastrutture particolaristiche e feudali, la voce del potere cen­trale ai sudditi delle diverse provincie. Pertanto, dal fondo S.R.U. in particolare dalle Serie: Processi penali antichi, Processi civili antichi, atti diversi in materia civile, affari diversi e carte amministrative traspaiono sia le funzioni che competono al preside sul terreno giudi­ziario, sia quelle che esplica sotto il profilo amministrativo, in esse è registrato il carteggio diretto tra i dicasteri napoletani ed il preside e tra questi e le varie Università della Provincia in ordine a diverse materie; nelle cause criminali si evidenziano le sue decisioni in prima istanza e in quelle civili i suoi giudizi in mancanza di giudici locali, carmerlenghi e baglivi preposti ad hoc, oltre ai giudizi in appello di tutte le corti, anche se la giurisdizione del preside viene spesso modificata dalla qualità delle cause e dai privilegi delle persone.
La tipologia di materie su cui si esplica l’azione del preside a livello amministrativo è quanto mai ampia; in materia sanitaria, per evitare il contagio pestilenziale, dà ordini spe­cialmente alle città costiere presidiate da “Cavallari”, sentinelle, soldati di stare in guardia e vigilare perché non avvenga sbarco di vascelli o “tartane” provenienti da paesi sospetti.
Numerose sono le disposizioni per la difesa esterna della provincia dai nemici, soprattutto turchi, che infestavano con frequenti incursioni le coste pugliesi, in particolare nel trat­to Mola, Monopoli, Polignano; in materia feudale indaga sulla condotta di governatori re­gi accusati di malgoverno e di vessazioni nei confronti di poveri cittadini. Per quanto attie­ne all’ordine pubblico adopera le forze di polizia per garantire la tranquillità della popola­zione contro i banditi. La sua autorità è richiesta, inoltre, per impedire disordini all’interno dell’Università e per dirimere le innumerevoli controversie tra Università a causa delle in­tricatissime questioni riguardanti le confinazioni tra comuni limitrofi.
Per quanto riguarda le serie di carattere giudiziario i processi penali celebrati innanzi al­l’Udienza provinciale tra il 1754 e il 1806, nonostante la loro incompletezza, ci consento­no di ricostruire episodi ignorati o poco noti svoltisi nei paesi di Terra di Bari in questo pe­riodo. I fascicoli che maggiormente interessano sono quelli relativi alle grassazioni ed agli omicidi commessi da bande armate e quelli dai quali traspaiono i primi sospetti sulla esisten­za del movimento giacobino. La presenza di una banda di malviventi preoccupa nel 1796 il governatore di Altamura e Gravina (cfr. S.R.U. processi penali antichi, b. 1, fasc. 5). I fat­ti svoltisi nel 1799 interessano le autorità costituite, ma la competenza a giudicare è sottrat­ta alle magistrature ordinarie e rimessa alla Giunta di Stato. Quei pochi fascicoli processua­li interessanti relativi ai fatti del 1799 che si trovano in questo fondo presentano un partico­lare interesse soprattutto perché sono tra i pochi che si sono salvati dalla distruzione dispo­sta dal sovrano Ferdinando IV.
Per quanto riguarda la serie dei Processi penali, alcuni provengono dalla Udienza provin­ciale (con estremi cronologici che vanno dal 1754 al 1806), altri dalla Corte criminale (1806­1815), dalla Commissione militare (1807‑1815), dalla Gran Corte criminale (1816‑1826) ed altri ancora da Corti e giudicati locali. Proviene, infatti, dalla Corte criminale un fascicolo del 1815 relativo a Gravina, che testimonia del malcontento popolare contro il potere costi­tuito. Due copie di un proclama rivoluzionario affisse in questa città, l’una vicino alla pub­blica piazza dinanzi alla bottega del “merciaiolo” mastro Francesco Ceci e l’altra nella Chiesa del Purgatorio, allarmano l’amministrazione comunale ed in particolare il sindaco Vincenzo Guida. Il proclama scritto a mano da un sedicente triumvirato della repubblica Francese porta la data 14 giugno 1815 ed incita i cittadini, al grido di libertà, indipendenza o morte, a ribellarsi al sovrano borbonico. Avviata dalla Corte criminale la fase istruttoria del processo per scoprire gli autori e i complici dell’affissione si giunge ad un nulla di fat­to e tutto si riduce a semplici sospetti. La Corte criminale, comunque, priva di elementi con­creti, a distanza di quasi un anno nella seduta del 7 maggio 1816 delibera conservare gli at­ti in archivio, in attesa di ulteriori “lumi” (cfr. S.R.U., processi penali antichi, b. 13, fasc. 111).
Un interessante materiale di studio potrebbero fornire anche i Processi civili antichi del­ la S.R.U. e i fascicoli civili degli antichi tribunali. Si tratta per lo più di ricorsi da parte di pri­vati cittadini o da parte di governatori regi e baronali alla Regia Camera della Sommaria che agiva per le contestazioni soprattutto in materia feudale ed economica.
Spesso l’Udienza interviene nella nomina degli amministratori delle “università”. E’ del 1790 un fascicolo relativo a Gravina in cui numerosi cittadini ricorrono alla Regia Camera della Sommaria per ottenere che un Ministro provinciale presieda ed assista alla elezione dei governanti e non un suo subalterno, il quale potrebbe essere facilmente corrotto. Questi cit­tadini gravinesi lamentano, infatti, che gli amministratori in carica, nonostante sia scaduto il loro mandato da quasi due anni, continuino “a perpetuarsi abusivamente nell’amministra­zione della città” senza preoccuparsi minimamente di convocare il pubblico parlamento per il rinnovo delle cariche; tali amministratori, a detta degli stessi cittadini, dispongono, inol­tre, a loro capriccio delle pubbliche rendite e manovrano per essere confermati “nè propri of­fizi”. pertanto, dalla Corte napoletana giunge ordine alla Regia Udienza di procedere al più presto alla nuova elezione e di vigilare attentamente a che questa “sortisca in persone atte, abili, timorate di Dio e idonee ad amministrare la città”. In una relazione sottoscritta dal sin­daco Vincenzo Morgigni, dal capo eletto Michele Cataldo e dagli altri eletti si espone in mo­do dettagliato, su richiesta della Regia Udienza, il procedimento che solitamente si segue nel­la elezione e il complesso cerimoniale che la precede. (cfr. S.R.U., fascicoli civili degli an­tichi tribunali, b;, 36, fasc. 321).
Non meno interessanti risultano gli atti delle serie amministrative. In esse è registrato il carteggio diretto tra il potere centrale e la S.R.U. e tra quest’ultima e le varie università del­la provincia. Gravina compare soprattutto in materia di ordine pubblico e di brigantaggio. Nel 1804 da Napoli il duca d’Ascoli, soprintendente generale della Polizia e Giustizia cri­minale del regno dà disposizione all’udienza di Terra di Bari di “estirpare, arrestare o dis­sipare la comitiva armata de’ ladri e malviventi che infestano le contrade di Gravina e pae­si limitrofi”; dal governatore di Gravina sono trasmesse al Preside relazioni circa i vari de­litti commessi in diversi luoghi della provincia (cfr. S.R.U. Affari diversi, b. 4, fase. 33). L’Udienza interviene anche per disporre squadre di soldati di campagna e di fucilieri di mon­tagna nella località “Fontanadogna” “in tenimento di Gravina” per rendere sicuro il traffi­co ai mercanti e viandanti diretti alla fiera di Gravina. (cfr. S.R.U., Affari diversi, b. 5, fase. 41).

4 Catasti: Il Catasto Onciario

La formazione del catasto onciario (così detto dall’unità di misura fiscale, l’oncia) fu or­dinata da Carlo III di Borbone con dispaccio del 4 ottobre 1740. La compilazione e l’esecu­zione furono regolate da apposite disposizioni emanate dalla Camera della Sommaria tra il 1741 e il 1742.
L’attuazione del Concordato raggiunto con la Santa Sede nel giugno del 1741 comportò la formulazione di nuove disposizioni. Negli “avvertimenti” emanati il 15 agosto sono ri­portati integralmente gli articoli del Concordato riguardanti l’imposizione dei tributi sui be­ni ecclesiastici. Un importante principio veniva, quindi, sancito col nuovo catasto: gli eccle­siastici e i beni del clero erano sottoposti a tributo, anche se per i beni acquistati prima del Concordato gli enti ecclesiastici avrebbero pagato solo per metà e il clero solo per la quo­ta eccedente il “patrimonio sacro”, che era esente. L’onciario si compone di due parti stret­tamente connesse. La prima raccoglie analiticamente i risultati della catastazione integrati da alcuni elementi fiscali. La seconda, di natura strettamente fiscale, contiene il processo di formazione e liquidazione della “tassa” fondato sui risultati catastali.
Nella prima parte sono elencate, in ordine alfabetico onomastico (di battesimo), le sin­gole partite catastali.
Per intendere l’ordine d’iscrizione dei contribuenti nell’onciario bisogna ricordare che le imposte erano reali e personali. Le università erano considerate come un “aggregato d’uo­mini, e di beni di varia natura e specie” (D. Cervellino). La tassa veniva fissata a seconda del­la varia “qualità” delle persone e dei beni. Riguardo alle persone, una prima distinzione ve­niva fatta tra cittadini e forestieri, i primi costituivano “fuochi” dell’università, i secondi era­no inseriti nel catasto perché risiedevano nel comune o perché vi possedevano dei beni.
Altre distinzioni venivano fatte tra laici ed ecclesiastici, tra ecclesiastici secolari e chie-se e monasteri, tra cittadini e vedove, in quanto per ognuna di queste categorie vigeva un par­ticolare regime fiscale. Un’ultima divisione veniva fatta all’interno della stessa categoria dei cittadini e riguardava la “qualità” delle persone. Coloro che vivevano di rendita o more no­bilium o esercitavano “professioni nobili” (“i Dottori di legge, i Medici fisici, i Notai e i Giudici a contratti”), venivano tassati solo per i beni. Quelli che esercitavano “qualche ar­te non nobile, ma manuale” dovevano pagare una tassa sul salario e il “testatico”. Il “testati-co”, applicato per capofuoco, era generalmente fissato nella misura di un ducato. La tas­sa sul salario, o come si diceva sulle “industrie personali”, era calcolata in base ad un red­dito presuntivo assegnato ai vari mestieri, raggruppati in tre categorie: “... Speziali di Medicina, e Manuali, Procuratore quando non è Notaro oncie 16, Sonatore, Panettiere, Azimatore, Co-sitore, Mandese, e Carrese, Calzolaro, Massaro, Arte di far Carra, Ferraro, Barbiere, Forna-ro, Bottegaro, Calzajolo onc. 14. Vaticale, Tavernaro, Ortolano, Putatore, Fabbricatore, Ar-miere, Polliere, Chianchiere, Cernitore, Lavorante onc. 12”. Questi tribu­ti colpivano, quindi, la maggioranza dei contribuenti cittadini, tranne le donne, esenti dai tri­buti personali. Ogni partita contiene, in linea di massima, le seguenti indicazioni: 1. Stato di famiglia ac­certato, con generalità come nelle rivelò; 2. Testatico; 3. Once d’industria riferite analitica­mente ai nomi dei soggetti; 4. Casa di abitazione, propria o in fitto; 5. Case date in fitto, con indicazione del canone; 6. Terreni e altri immobili rustici; 7. Capitali; 8. Censi enfiteutici; 9. Denaro impiegato in negozio o mercanzia; 10. Animali; 11. Pesi (debiti, censi e altre passività).
I risultati delle partite catastali singole sono raccolti analiticamente nella “collettiva ge­nerale delle once” ordinate pure alfabeticamente per categorie, con l’accurata distinzione delle once di beni e delle once d’industria nella categoria dei cittadini. Con la collettiva ge­nerale termina la parte catastale dell’onciario.
La seconda parte contiene il procedimento per la formazione della tassa, fondato sulla col­lettiva generale e sullo stato discusso dell’università. La formazione della tassa procede per categoria, secondo un complicato sistema di ripartizione.
Il catasto onciario è una fonte preziosa per lo studio di una comunità, pur se rappresen­ta statisticamente, ma tuttavia colta nelle sue articolazioni interne, che diventano spie di pro­fondo dinanismo. La struttura demografica e familiare offerta dalla fonte consente di defi­nire la consistenza della popolazione e la composizione del nucleo familiare e, all’interno di questo, strategie matrimoniali, stratificazioni sociali, mentalità. I dati catastali consentono di studiare l’aggregato demografico per sesso, età e stato civile.
Per la ricerca urbanistica il campo di ricerca è più limitato, in quanto la descrizione de­gli immobili urbani è sommaria.
Risulta, tuttavia, abbastanza completo il quadro dei rapporti proprietari, con l’individua­zione delle case in fitto o in proprietà sul totale degli edifici censiti.
E’ inoltre possibile determinare le varie tipologie a livello di strutture architettoniche pre­senti in un determinato comune: casa a un piano, a più piani, “palazziate”.
Ben più vasto appare il quadro dei fondi rustici. I dati catastali, anche se con approssima­zione, consentono la ricostruzione del paesaggio agrario e dei rapporti sociali.
Con l’ausilio delle tavole e tavolette dell’Istituto Geografico Militare è possibile rico­struire il quadro delle colture prevalenti e delle eventuali consociazioni, il tipo e l’intensità di manufatti, la proporzione con l’incolto produttivo.
Da questo e da altri quadri paralleli risultano chiariti i rapporti sociali nelle campagne, i tipi e la proporzione nella distribuzione fondiaria, i processi di erosione del latifondo o di con­centrazione di microfondi, i rapporti dell’uomo con la terra e i rapporti tra le classi sociali (proprietari, fittuari, massari, coloni, braccianti).
Accanto agli immobili urbani e rustici e all’attività personale, (“industria”) è possibile trarre notizie sulla gestione di capitali con i relativi proventi, sul possesso di censi attivi e sul­la zootecnia e infine sui debiti per le cause più diverse (capitali ottenuti, maritaggi, censi pas­sivi, pesi di messe ecc.).
Come ben si vede, un quadro di grande complessità, ma di eccezionale interesse.
Il catasto onciario di Gravina fu pubblicato il 1 settembre 1754 dal sindaco Francesco Benchi, unitamente ai tre deputati, Giacinto Palmieri, Giuseppe Birri, Francesco Cataldo, e ai sette eletti, Francesco Saverio Pentibone, Michele d’Erario, Ignazio Bleo, Francesco Laterza, Giuseppe D’Agostino, Francesco Guida e Francesco Lamoralia.
Nella prima parte sono iscritte le partite catastali secondo il dettato delle istruzioni “citta­dini”, ‘vedove e vergini in capillis”, “ecclesiastici secolari cittadini”, “Chiese, Munisteri, Luoghi Pii”, “forestieri abitanti laici”, “forestieri bonatenenti non abitanti laici”, “forestieri non abitanti ecclesiastici secolari”, “Chiese, Munisteri, e Luoghi Pii di Napoli, ed altri luoghi”.

La seconda parte riporta la collettiva generale delle once, per un totale di 151.647 once e il computo per la formazione della tassa.
Il catasto onciario fornisce significativi elementi di conoscenza sulla struttura socio‑eco­nomica e professionale della popolazione alla metà del XVIII secolo. L’onciario offre da­ti sulla divisione della proprietà, sulla composizione sociale dei proprietari, sulla rendita, sul paesaggio agrario, sulla struttura demografica.
Si possono delineare le reciproche correlazioni tra classi sociali e demografia. Vengono individuate le differenze nella dimensione delle famiglie viventi nell’area urbana, rispetto a quelle legate alla campagna.
Dall’esame delle attività svolte da capifamiglia cittadini (1538 unità) abbiamo rilevato che l’agricoltura assorbiva il maggior numero di addetti: 847, tra zappatori, foresi, braccia­li, massari, potatori, fattori di campagna, ortolani, legnaioli, sfossatori.

Gli addetti all’allevamento del bestiame erano 357 tra pastori, vaccari, pecorari, porca­ri, caprari, giumentari, gualani, manizzari (mandriani). Cospicuo anche il numero degli ar­tigiani, 160 unità (scarpari, sartori, falegnami, ferrari, vardari, ottonari, fornaciali, caldaro­li, molinari, fornari, panettieri, e poi lavoratori della pietra, zuccatori, mastro paretaro, ma­stro scalpinello, tofaroli e infine salnitrari e mastri fucilari).
Gli addetti al trasporto di merci e persone erano 42, tra vaticali, trainieri, galessieri, ca­valcatori e 1 cocchiere, probabilmente a servizio di qualche famiglia facoltosa.
Alle attività commerciali si dedicavano 34 capofamiglia (bottegari, pizzicaroli, macel­lari, pescivendoli, cascettari ‑ ossia venditori di formaggi ‑ un ogliarolo) ai quali bisogna ag­giungere un tarvernaro.
I professionisti, o comunque persone che svolgevano una attività intellettuale, erano 31 tra agrimensori, notai, dottori fisici, speziali di medicina, maestri di scuola, giurati, procu­ratori, computisti, esattori, scrivani.
I benestanti, cioè coloro che vivevano “nobilmente” o “civilmente” e che Pasquale Villani definiva come un particolare tipo di borghesia agraria, gli antenati prossimi dei “ga­lantuomini” meridionali, erano 37.
Per ultimi indichiamo i servitori e vastasi (24) e i mendicanti (5).
Dalla seconda parte dell’onciario, contenente il computo per la formazione della tassa ‑computo fondato sulla collettiva generale delle once e sullo stato discusso ‑ è possibile trar­re notizie sugli introiti e sugli esiti dell’università.
Le entrate dell’università di Gravina ascendevano a 5914 ducati, provenienti in parte da tasse esatte a vario titolo (692 ducati dalla tassa dovuta dai forestieri bonatenenti laici ed ec­clesiastici; 244 ducati versati dai forestieri abitanti per il “jus habitationis”; 1334 ducati per il “testatico”) in parte dall’affitto di immobili, quali le tre difese (Difesa Grande, Lamacolma, Pescara), che rendevano 2550 ducati, il magazzino del sale, le due botteghe del macello e le baracche allestite in tempo di fiera.
Gli amministratori cittadini sostenevano i sottoelencati esiti: 30 ducati al predicatore quaresimale; 12 ducati per accomodo dell’orologio; 25 ducati per riparazioni di strade; 8 du­cati per la festività di S. Michele, protettore di Gravina; 6 ducati per la festività di S. Giuseppe e per la oblazione di cera; 2812 ducati alla “Regia Corte”; 5481 ducati ai “fiscalarii”; 359 ducati per la “carrea”, ossia trasporto, di sale e salnistro; 218 ducati, quale “aggio” al 3% su 7282 ducati; 2064 ducati per debiti “istrumentari” al duca e ad alcuni enti ecclesiastici (Capitolo Cattedrale, monasteri di S. Sofia, di S.Maria Domenicana e di S. Teresa, conven­to di S. Domenico, cappella del Santissimo Sacramento); 300 ducati al duca per il “piattello”; 50 ducati al mastrogiurato per “materia” e per materiali necessari all’allestimento delle ba­racche in tempo di fiera; 100 ducati esatti forzosamente dal duca in tempo di fiera; 30 duca­ti al Banco dello Spirito Santo di Napoli per un preteso capitale di 6000 ducati (causa pen­dente presso la Camera della Sommaria); 600 ducati per il “jus” dell’esazione.
Si riportano di seguito le sintesi di alcuni “fuochi” elencati nell’onciario di Gravina.

Domenico li Vulpi [5] di 44 anni, “zappatore”, abita con la moglie Giuseppa di Gennaro, di 40 anni, e il figlioletto Antonio di 3 anni, in una casa al Borgo, di proprietà della ducal chiesa del Purgatorio, alla quale paga ducati 6 e mezzo d’affitto.
La sua rendita (19 once) è costituita da beni rustici, un vigneto dell’estensione di 2 rasole a “Grattamarallo” e 1 tomolo di terre seminatoriali sito alla contrada “Lisca”, oltre 12 once per l’attività esercitata.

Valerio Cavallo [6], “mastro sartore” di 33 anni, abita, con la moglie Antonia Ferrone e la fi­glia Maria Teresa di 4 anni, in una casa di proprietà della Chiesa Collegiale di S. Nicola, alla quale paga una pigione di otto ducati. Possiede due vigneti: il primo, dell’estensione di 4 raso­le, in località “Accurso”, I’altro, dell’estensione di 3 rasole, alla contrada denominata “Pidoc­chiosa”; un tomolo e un quarto di terre seminatoriali a “S. Angelo”. Possiede, inoltre, due somari valutati 6 once. La sua rendita totale, ascende a 32 once, comprese 14 once per la sua attività di sarto.

Giuseppe Domenico de Antoniis [7], “speziale di medicina”, di 40 anni abita con la moglie Grazia Filippa Pepe di 36 anni e nove figli, di età compresa tra 19 e 1 anno, in una sua “casa palaziata” sita al Piaggio. La sua rendita urbana (6 once) è data da una “grotta con una fossa” e una “lamia”, site nelle vicinanze della sua abitazione e affittate rispettivamente a Rocca Ciaciullo e Antonia Chirico.
Possiede un vigneto dell’estensione di 23 rasole, alla contrada “Accurso”, valutato once 26. Ha investito un capitale di 60 ducati nell’acquisto di “droghe per uso della sua speziera”.
Possiede, inoltre, 13 “bovi aratori” (valutati 150 once), 4 vacche (valutate 20 once), 5 giu­mente per la “pisa” (valutate 15 once), una somara e tre cavalli, di cui uno “per uso di sella”, che non viene tassato. La rendita totale ascende a 466 once.

Don Michele Benchi [8], un “nobilvivente” di 59 anni, abita con la moglie Donna Isabella Quercia, due figli, il fratello Don Francesco e la sorella “in capillis” Donna Teresa, in una “ca­sa palaziata” sita alla Strada delle Gatte. Nel “fuoco “ sono compresi una serva e un servitore. La rendita urbana è data da un’altra “casa palaziata” sita alla Strada Capuana (valutata 160 on­ce), una “lamia” sita nella medesima strada e due “casuppole” (valutate 48 once) site la prima “dietro il Portone di Piella” e la seconda alla “strada di ripa nuova”.
La rendita agraria è rappresentata da una masseria dell’estensione di 7 carra, con “lamia, lamioni e stalle, giardino e iazzo con capomandri” confinante con la “Difesa del Maricello” (va­lutata 283 once) e ancora da 35 tomola di terra alla contrada “Lisca”, 9 tomola di terre semi­toriali a “Puzzo Pateo”, 3 tomola e 6 stoppelli di terre seminatoriali alla “Scarpara”, un “com­prensorio di terre” dell’estensione di 42 tomola a “Serra di Mezo”, da 4 vigneti siti alle contra­de “Serra di Mezo”, “Macchitella”, “Marasco” e “Pidocchiosa”.
Possiede, inoltre, 31 bovi aratori (valutati 361 once), 2 muli e 2 cavalli per il “traino”, 25 ca­pre, 647 pecore (valutate 258 once), 26 giumente per la “pisa”, 19 vacche, 70 alveari (valuta­ti 46 once). La rendita totale ascende a 1878 once.

Il dottor don Francesco Polini [9], caporuota della Regia Udienza di Lecce, di anni 46, abi­ta con la madre vedova, donna Vita d’Ursi, e i fratelli don Liborio, sposato con donna Maria Campanile, e don Agostino, in una sua “casa palaziata” sita nella strada Capuana. Nel “fuoco” sono inseriti due servitori e due serve. Non possiede beni urbani, oltre il palazzo dove abita e una “lamia” che utilizza come magazzino.
La rendita (once 2891) è rappresentata da beni rustici, dai proventi dell’allevamento di bestia­me e da annue entrate per capitali prestati a varie persone.
Possiede due masserie; la prima sita alla contrada “dell’Oriente”, dell’estensione di 32 car­ra con “lamioni per comodo di bovi, e foresi, stanze, chiesa, giardino e otto fosse”; la secon­da sita alla contrada “Belmonte”, dell’estensione di 8 carra; due vigneti siti alle contrade “Lama Signora” e “Salza”, oltre 36 tomola di terre con “grottaglie” di pietra rustica a “Serra Pavento” e alla “salita di Cacaseccia”.
A tali beni vanno aggiunti i proventi dell’allevamento di bestiame (265 porci valutati 176 once, 120 vacche valutate 480 once, 100 pecore valutate 40 once, 42 “annecchi e annecchie”, 16 alveari di api). Nella conduzione delle masserie venivano, inoltre, utilizzati 50 bovi arato­ri (valutati 583 once), 20 giumente per la “pisa” (valutate 60 once) e 6 cavalli di cui due “da sel­la”, che non venivano tassati.

La signora donna Caterina Pomarici [10] di anni 71, vedova del dottor signor don Oronzo Santomasi, abita con tre serve, in una sua “casa palaziata” sita alla strada denominata “il Pondinello”. La sua rendita urbana (once 107) è rappresentata da un comprensorio di case si­tuato di fronte al palazzo di sua abitazione, da un altro comprensorio sito alla Strada di don Lelio Orsini, dalla quinta parte di una casa alla Strada di Zia Lana. Un’altra casa, sita alla strada di Santulli, è assegnata in patrimonio “quoad fructibus tantum” al reverendo don Giuseppe Fichera e ai canonici don Ferrante e don Antonio, suoi figli. Al reverendo don Michele de Carluccis sono assegnati per patrimonio, “in fructibus tantum”, una casa sita al “Cavato di S. Matteo” e un vigneto, dell’estensione di 7 rasole, sito in località “Gorgovia”.
La rendita agraria (once 1003) è data da sette “fosse”, situate una “fuori la porta di S. Tomaso”, tre “alla Piazza”, una “all’angolo della Ducal Chiesa del Purgatorio”, due “fuori la porta di basso”; da 7 vigneti alle contrade “Albanello”, “Lisca”, “Cacaseccia”, “Ulmo”, “S. Leo”, “Troni di Gorgovia”. Possiede, inoltre, due masserie: la prima dell’estensione di 12 car­ra e 20 tomola, in località “S. Mauro”; la seconda, dell’estensione 14 carra e 20 tomola, alla contrada “Laura lo Viscillo”.
Possiede, infine, 550 “bovi di fatiga” (valutati 583 once), 220 vacche (valutate 880 once), 1740 capi, tre pecore e montoni (valutati once 696),230 capre (valutate 26 once), 26 giumen­te per la “pisa” (valutate 78 once), cavalli, mule e giumente per il trasporto, oltre due cavalli per la carrozza, che non vengono tassati.

Monastero sotto il titolo di S. Sofia, o Scalaceli, delle clarisse [11].
La rendita urbana del monastero è rappresentata da 15 case, di cui una “palaziata”, 8 “la­mie”, 6 “grotte”, 8 “botteghe”, I “casolaio”, 2 forni e 1 osteria (affittata per uso di stalla) per un totale di 942 once.
La rendita agraria è data da 4 “parchi”, 1 giardino, 2 “fosse”, 8 vigneti, 4 masserie: la prima, dell’estensione di 7 carra, in località “Medichicchio”; la seconda, dell’estensione di 3 30 tomo­la, alla contrada “Grutto Tosta”; la terza, dell’estensione di 25 carra, in località “Ricupa”; la quarta, dell’estensione di 15 carra, alla contrada “S. Felice”.
A tali beni vanno aggiunti i proventi dell’industria armentizia (1616 pecore) oltre a 34 bovi ara­tori, cavalli da soma e per trasporto, giumente per la “pisa”. Il monastero esigeva, inoltre, an­nui censi da diversi debitori. La rendita totale è di 6524 once, cui vanno aggiunti 173 once per beni acquistati dopo il Concordato, ma per i privilegi concessi agli enti ecclesiastici, tale ren­dita viene ridotta a 3436 once.

5 Intendenza di Terra di Bari

Ordinamento Amministrativo Comunale Preunitario (1806‑1860)

All’inizio del 1806 il regno di Napoli fu occupato dalle armate francesi che vi rimase­ro fino al 22 maggio 1815. Nel corso di circa dieci anni fu introdotta come in altri stati d’Italia e di Germania, la maggior parte delle leggi ed istituzioni di tipo francese susseguenti alla rivoluzione.
Furono quindi aboliti i presidi e al loro posto nominati gli Intendenti, i consigli di inten­denza, i consigli distrettuali e provinciali, furono ripartiti i demani feudali e comunali e no­minati i sindaci e i decurioni.
Tornato sul trono, Ferdinando I conservò le innovazioni apportate dal governo francese nell’amministrazione civile, apportandovi solo lievi modifiche e ampliando invece molte attribuzioni. Infatti le leggi del 12 dicembre 1816, n. 570 e del 21 marzo 1817, n. 664 han­no molti punti in comune con quelle del precedente decennio francese (leggi 8 agosto 1806 n. 132 del 18 ottobre 1806 n. 211).
L’organizzazione amministrativa periferica fu divisa in provinciale, distrettuale e comu­nale. In ogni provincia vi era il Consiglio d’Intendenza, presieduto dall’Intendente, capo di tutta l’amministrazione, assistito dal segretario generale. Nei distretti, invece, in cui erano divise le province, vi erano le sottointendenze con a capo i sottointendenti. Nei comuni vi era un sindaco, un primo eletto, un secondo eletto e un decurionato presieduto dal sindaco che era assistito dal cancelliere comunale, cui era anche affidato l’Archivio.
L’intendente era la prima autorità della provincia e risiedeva nel capoluogo della mede­sima. Era coadiuvato da un segretario generale.
Come prima autorità della provincia e primo funzionario dell’intera ammini-strazione del­la stessa, egli era il tutore dei Comuni e degli uffici pubblici in essa compresi. Era incarica­to della amministrazione finanziaria, reclutava i soldati, eseguiva ogni altro servizio milita­re non affidato ad autorità particolari, comandava la polizia della provincia (eccetto che nel­la provincia di Napoli dove era affidata ad un Prefetto di Polizia). Presiedeva inoltre ogni commissione o consiglio fisso o temporaneo stabilito nella provincia, per qualsiasi grado di amministrazione e qualunque fosse il grado e la dignità degli individui che lo componevano.
L’Intendente dipendeva dal Ministro degli affari interni, capo di tutta l’amministra-zio­ne civile del regno, e corrispondeva direttamente con lui su tutti gli affari relativi all’am-mi­nistrazione interna. Corrispondeva anche con tutti gli altri Ministeri e Segreterie per gli af­fari che rispettivamente ne dipendevano.
Uno dei doveri dell’Intendente era quello di pubblicare le leggi, i decreti regi, i regolamenti e gli ordini ministeriali. Per rimuovere eventuali dubbi ed ostacoli per la celerità e l’as­sicurazione dell’esecuzione pubblicava istruzioni e ordinanze.
Tutti gli atti del governo e della pubblica amministrazione erano pubblicati sul “Giornale dell’Intendente”, che era una pubblicazione periodica ufficiale.
Quale tutore dei comuni, degli uffici pubblici ed in generale di tutti i suoi amministrato­ri ne ascoltava e riceveva le domande e le rimostranze e vi provvedeva nelle materie di sua competenza a norma delle leggi, decreti e regolamenti.
Destinato dalla legge alla vigilanza dei comuni e dei pubblici uffici, alla cura della co-stru­zione e manutenzione delle opere pubbliche, al miglioramento ed incoraggiamento del-l’in­dustria della provincia, a conoscere e valutare lo spirito pubblico della medesima, lo stato della pubblica istruzione e la condotta delle autorità a lui subordinate, destinato ancora a mantenere l’equilibrio e la regolarità in tutti i rami della pubblica amministrazione, doveva, almeno una volta in ogni biennio, visitare tutti i comuni della provincia.
Conosciuti da vicino i bisogni e le risorse dei comuni e dei pubblici uffici e verificato lo stato delle controversie, spesso risolveva queste sul luogo, mentre provvedeva ai bisogni ri­scontrati con le sue facoltà ordinarie. Nel caso che queste facoltà fossero insufficienti, e quando riteneva opportuno doversi migliorare la situazione economica e sociale della pro­vincia, inviava dettagliati rapporti al Ministro degli affari interni che li presentava al re per le necessarie provvidenze.
Egli non poteva però stabilire imposizioni di qualunque natura, distribuire una imposi­zione al di là delle somme e del tempo dalla legge fissati o fare prestiti senza l’autorizzazio­ne. Ugualmente non poteva usare i fondi provinciali o comunali ad un uso diverso da quel­lo al quale erano stati destinati, senza un’autorizzazione del re o dei ministri secondo i casi.
L’Intendente era anche il capo della polizia amministrativa: magistratura istituita per prevenire o scoprire i reati, raccoglierne gli indizi, perseguitare gli imputati fino al loro arresto.
Nell’Archivio di Stato di Bari, delle magistrature civili dal 1806 al 1860, si conservano soltanto gli atti relativi all’Intendenza, al Consiglio di Intendenza e alle Sottointendenze di Altamura e Barletta. In questi atti però si trovano tracce anche delle altre Magistrature.
Tale documentazione si presenta divisa in serie autonome con propri inventari (Am­ministrazione Provinciale, Amministrazioni Comunali, Amministrazione comunale antica, Pubblica istruzione, Ferrovie, Alienazioni Permute e cessioni;, Campisanti, Sanità Pubblica, Monumenti e scavi, Guardia Nazionale, Porti e fari, Polizia Antica, Agricoltura Industria e Commercio, Monasteri sopressi, Leva).
Il regolamento per le Segreterie dell’Intendenza e delle Sottointendenze del 7 aprile 1851, sancito in esecuzione dell’art. 29 della L. 12 dicembre 1816 divise la segreteria dell’Intendenza nei seguenti uffici: I: Segretariato Generale, Giustizia, Guerra e Marina; II: Amministrazione Provinciale e dei Lavori Pubblici; III: Amministrazione Comunale; IV: Amministrazioni speciali (Amministrazione finanziaria, Pubblica Istruzione, Statistica, Società economica, ecc.).

La documentazione più rilevante della Intendenza di Bari riguarda gli affari generali di polizia, i bilanci e i conti provinciali, gli edifici e le strade provinciali, le alienazioni, cen­suazioni e permute, le strade comunali, i porti e fari, gli stati discussi dei comuni del distret­to di Bari, i demani dello Stato, i lavori di rettifica e revisione del catasto provvisorio, la so­cietà economica, lo stato delle campagne, la pubblica istruzione, i lavori della sede del Li­ceo delle Puglie.
Di notevole interesse storico è la documentazione relativa al comune di Gravina conser­vata nelle diverse serie dei fondi Intendenza di Terra di Bari e Prefettura. In particolare, la documentazione presente nelle serie:

Legioni e Gendarmerie (1808‑ 1821), del fondo Intendenza di Terra di Bari, riguarda l’orga­nizzazione della Guardia Provinciale, il rendiconto del Sindaco relativa alla percezione dei le­gionari contribuenti, lo stato dei legionari formato dalla Commissione del circondario, lo sta­to degli ufficiali e dei sottufficiali, le filiazioni, le richieste di forniture, i reclami e la corrispondenza.

Leva di Terra e di Mare (1809‑1860), del fondo Intendenza di Terra di Bari, è costituita da liste, sorteggi, reclami, deliberazioni decurionali, filiazioni, certificati, rimpiazzi ed arresti.

Strade Regie e Provinciali (1822‑1899) del fondo Intendenza di Terra di Bari / Prefettura è relativa alla costruzione e manutenzione delle suddette strade. In linea di massima i fascicoli sono corredati da progetti, planimetrie, profili longitudinali, sezioni trasversali, computi me­trici, capitolati di appalto e misure finali. Dagli atti si rileva che nel 1822 ebbe inizio la costru­zione del tratto Altamura ‑ Gravina della strada di Altamura, seguirono poi la costruzione del tratto Estramurale di Gravina, la strada Gravina ‑ Montepeloso, Gravina ‑ Spinazzola al confine verso Venosa e Gravina ‑ Corato, divise in due tronchi Gravina ‑ Parco Caputo e Parco Caputo­ - Corato.

Opere pubbliche comunali (1806‑1900), del fondo Intendenza di Terra di Bari / Prefettura, comprende tutti gli atti relativi ad opere pubbliche compiute nei vari comuni della Terra di Bari cui partecipava anche lo Stato per mezzo della Intendenza (o Prefettura per il periodo succes­sivo al 1816).
Per il periodo Intendenza esistono, relativi al comune di Gravina, tre fasci contenenti comples­sivamente 13 fascicoli. Questa documentazione abbraccia il periodo 1817‑ 1842 e riguarda tut­te le opere pubbliche effettuate nel comune, quali: costruzione e riparazione di strade interne, riparazioni alla casa comunale, costruzione e riparazione di opere idriche (in particolare la for­mazione della fogna), riparazioni e riscaldamento dei locali degli ex Domenicani.
La documentazione relativa al periodo successivo al 1861 è costituita da sei fascicoli in tre fasci. Di particolare interesse storico risulta il piano regolatore della città correlato dalla rela­tiva corrispondenza tra il Comune, la Prefettura e il Ministero dei Lavori Pubblici, le relazio­ni del Corpo Reale del genio Civile, la relazione del sindaco Pellicciari al Consiglio Comunale nella tornata del 3 novembre 1867, le deliberazioni del Consiglio Comunale.

Liti e transazioni (1831 ‑ 1893) del fondo Intendenza di Terra di Bari / Prefettura, riguarda la vertenza per l’occupazione di suolo pubblico, la vertenza con vari proprietari per il restauro all’acquedotto, transazioni per usurpazioni di terreni, cessioni di suolo, giudizio di rivendica di suolo usurpato, autorizzazione per reintegra del regio Tratturo, transazioni con gli appaltato­ri del Dazio, autorizzazioni dal sindaco per stare in giudizio.

Strade comunali (1835‑1926), del fondo Intendenza di Terra di Bari / Prefettura è relativa al­la costruzione e manutenzione di strade interne, costruzione e manutenzione di ponti, espro­priazioni di terreni per costruire strade esterne, elenchi di strade comunali obbligatorie, vicinali e esterne, ricorsi per usurpazione di suolo per costruire strade e delibere sulla manutenzione del­le strade comunali e vicinali. La documentazione comprende anche una pianta dell’architetto Federico Lerario relativa all’ampliamento della strada che da Gravina porta al largo dei Cappuccini (1859‑60), progetti di sistemazione di strade interne, capitolati di appalto e misu­re finali.

Campisanti (1812‑1926), del fondo Intendenza di Terra di Bari/Prefettura comprende lavo­ri al vecchio cimitero, acquisti e concessioni di suoli per l’ampliamento dello stesso, costruzio­ne di un nuovo cimitero, costruzione di cripte, acquisto di arredi sacri e utensili vari utili alla cappella del Camposanto e regolamenti di polizia mortuaria.

Crediti Debiti Rendite sul Gran Libro (1807‑1926), del fondo Intendenza di Terra di Bari / Prefettura, riguarda mutui passivi, debiti e crediti del Comune, pagamento di somme all’Istituto dello Spirito Santo di Napoli, rendite che l’Università di Gravina riscuote dalla Tesoreria generale e crediti che le cappelle di S. Maria del Piede e di Costantinopoli vantano contro il comune.

Regolamenti comunali (1817‑1895), del fondo Intendenza di Terra di Bari/Prefettura è co­stituita da Regolamenti di polizia urbana e rurale, d’edilizia, di igiene, delle guardie municipa­li e campestri. E’ presente un figurino delle guardie municipali e della banda musicale.

Agricoltura Industria e Commercio (1807‑1922), del fondo Intendenza di Terra di Bari / Prefettura risulta divisa per materia: Agenti di Cambio, Comizi agrari, Boschi e Miniere, Ra­mo forestale, Camera di Commercio, Fiera e Mercati, Caccia e Pesca...

Per il comune di Gravina ritroviamo fascicoli in “Fiere e mercati” e “Pesi e Misure”. Le “Fiere e Mercati” la documentazione è degli anni 1808‑ 1860 e riguarda l’istituzione di una fiera per mercanzie (R.D.17 novembre 1814), di una fiera per animali di ogni specie (R.D.19 luglio 1854 con relative relazioni, nonché richieste di forze militari per tutelare l’ordine pubblico durante la celebrazione di dette fiere. In “Pesi e Misure” la documentazione è del 1843 ed è relativa alla definizione e dimensione delle vecchie misure agrarie in Gravina.

Alienazioni, Permute e Cessioni (1811‑1926), del fondo Intendenza di Terra di Bari / Prefettura riguarda censuazioni di suolo pubblico, di giardini e di antiche muraglie, permute di suolo pubblico, cessione di suolo demaniale per la Fiera di Gravina e acquisto di stabili.

Polizia Urbana e Rurale (1806‑ 1845), del fondo Intendenza di Terra di Bari è costituita da un unico fascicolo sui guardiani rurali negli anni 1812‑1817.

Alienazioni Permute e Censuazioni (1806‑1844), del fondo Intendenza di Terra di Bari / Prefettura è raccolta nel fascicolo 170 della b. 6 e riguarda la cessione, nel 1813, di un loca­le dei Conventuali al comune.

Illuminazione (1914‑1926), del fondo Prefettura concerne atti e contratti di luce elettrica sti­pulati dal comune nel 1921‑1925.

Culto e Dipendenze (1771 ‑ 1844), del fondo Intendenza di Terra di Bari è contenuta nei fa­scicoli 586 e 587 della b. l9. In particolare, il fascicolo 586 riguarda il pagamento nel 1806 del debito dovuto dal capitolo di Gravina alla Commenda di S. Antonio Abate di Napoli, mentre il fascicolo 587 è relativo al mantenimento del detenuto Michele Duza di Gravina nell’ospizio di Giovinazzo negli anni 1839‑40.

Sanità Pubblica (1806‑1926), del fondo Intendenza di Terra di Bari/Prefettura, per il perio­do Intendenza è racchiusa nella b. 30 fascicolo 443 XII e vi si legge per l’anno 1851 l’obbli­go della Carta di autorizzazione all’esercizio dell’arte salutare per i nuovi esercenti. Molto più ricca è la documentazione del periodo Prefettura dalla quale è possibile ricavare un quadro ab­bastanza completo sulla diffusione, nel comune in questione, del Colera. A tale proposito è in­teressante consultare per gli anni 1867 ‑ 1889, le b. 53 e 19 che contengono rispettivamente un manifesto sulle precauzioni da prendere contro il colera e vari opuscoli a stampa sullo stesso oggetto. Molto interessante anche la documentazione della b.3 (aa.1866‑1888) che raccoglie i bollettini sanitari della popolazione e del bestiame; e quella della b. 44 (aa. 1860‑1888) che oltre ad illustrarci la condizione sanitaria della popolazione nel ventennio 1860‑1883, contie­ne una curiosa domanda delle monache di S. Chiara e di S. Teresa per ottenere alla loro mor­te di essere sepolte nella chiesa del loro convento. Nella b. 60 fascicolo 945 si trovano le ono­rificenze ai benemeriti della salute pubblica; nella b.63 (aa.1877‑ 1887) gli atti governativi per l’istituzione della condotta veterinaria, gli elenchi degli esercenti l’arte sanitaria, la nomina dei veterinari e dei medici condotti; nella b. 77 (aa. 1866‑ 1877) i permessi e i divieti relativi alle feste, Fiere e Mercati e i provvedimenti porgli stabilimenti insalubri; nella b. 91 (aa.1866‑ 1889) infine i censimenti vaccinici e le relative liste nominative dei vaccinati.

7 Consiglio Generale degli Ospizi

I Consigli Generali degli Ospizi avevano il compito di vigilare sugli stabilimenti di be­neficenza e i luoghi pii laicali, siti nella rispettiva giurisdizione, per quanto riguardava l’am­ministrazione, l’economia e la disciplina. Questi consigli, in ogni provincia, erano compo­sti dall’Intendente (che era il presidente), dall’ordinario della diocesi del capoluogo, da tre Consiglieri, scelti tra i possidenti del capoluogo che si erano distinti per qualità personali e per pietà verso i poveri, e da un segretario.
Essi si riunivano due volte la settimana ed i loro atti si chiamavano deliberazioni (venivano presi a maggioranza dei voti dei consiglieri presenti).
Il segretario aveva l’obbligo di eseguire le disposizioni dei consigli, contrassegnarne le deliberazioni ed autenticarne le copie. Presso ogni segreteria vi era anche un razionale ad­detto al ramo contabile.
Per ogni luogo pio vi era uno stato discusso che determinava i “pesi” e le spese, secon­do le rendite che introitava. Su questi stati discussi i consigli degli ospizi portavano le loro osservazioni e pareri. Essi venivano rinnovati ogni 5 anni per quei luoghi pii la cui rendita oltrepassava i 3.000 ducati, ogni tre per quelli la cui rendita era maggiore.
I luoghi pii potevano soggiacere a tasse o ratizi per il mantenimento degli uffici degli ospi­zi, per i manicomi, per il mantenimento di qualche ospedale centrale che richiedeva il soc­corso di tutti i luoghi pii della provincia e per sopperire a qualunque spesa necessaria.
In ogni comune vi era una commissione amministrativa di beneficenza (composta dal sin­daco e da due amministratori) che amministrava i beni e le rendite dei luoghi pii del comu­ne. Presso ogni commissione vi era un cassiere ed un segretario.
Ogni commissione doveva avere un registro di contabilità per poter sempre controllare l’attivo ed il passivo di cassa (un altro simile registro era tenuto dal cassiere).
Annualmente le commissioni dovevano presentare ai decurionati il registro di contabi­lità (che costituiva il conto morale) che veniva discusso nel Decurionato con l’intervento di un ecclesiastico. Infine il sindaco lo rimetteva al consiglio generale degli ospizi.
Presso l’Archivio di Stato di Bari si conservano le carte amministrative e contabili di mol­tissimi luoghi pii della provincia dal 1806 al 1862, con statuti risalenti al 1770.
Nei due inventari, uno per gli atti amministrativi, l’altro per quelli contabili, intitolati “opere pie”, sono inventariate sia le poche carte appartenenti al consiglio generale di ammi­nistrazione provinciale ( 1809‑1816) sia quelle appartenenti al consiglio generale degli ospi­zi(1816‑1862) e alla prefettura fino al 1900.

Il Sacro Monte dei morti di Gravina

In una copia dell’atto di fondazione, risalente al 10 aprile 1640 conservato presso l’Archivio di Stato di Bari nel fondo Consiglio Generale degli Ospizi, si ha notizia della volontà dei du­chi di Gravina, don Ferdinando III Orsini e della sua consorte, Duchessa donna Giovanna Frangipane della Tolfa di erigere un monte per suffragio delle anime del Purgatorio.
Nell’atto, fra Donato da Matera dei Minori osservanti della Riformata provincia di S. Nicolò supplica il vescovo di Gravina, monsignor Domenico Cennini, affinché sia il suo assenso a che si dettino le Regole con le quali governare detto Monte (cfr. b. 107, fasc. 1910).
Il vescovo dà il suo placet alla fondazione della Congregazione perpetua sotto il titolo di Sacro Monte del suffragio delle anime del Purgatorio ed impartisce i Capitoli o Regole che sa­ranno a fondamento del governo dell’Opera pia.
Le ragioni di culto del Sacro Monte consisteranno nel fare e dire messe per le anime del Purgatorio e particolarmente per quelli che saranno iscritti in essa opera. Si designe-ranno uno o più Cappellani “che sieno di vita buona ed esemplare” per la celebrazione delle messe, per le confessioni, il conforto dei moribondi.
Quest’opera pia, è detto tra l’altro, sarà governata da una Congregazione di sei persone che si chiameranno Governatori, l’officio dei quali dovrà durare un anno e dai quali si procederà poi alla nomina del o dei cappellani, del depositario, dell’esattore, del cancelliere, del sacresta­no. Poiché i suddetti duchi propongono di far fabbricare una chiesa o cappella per detto Monte, appunto per la celebrazione di sacri offici, si riservano il diritto per sè e per i propri successo­ri in perpetuo di nominare tre dei governatori, lasciando la nomina degli altri tre di competen­za vescovile. Se l’esattore sarà ecclesiastico, il depositario dovrà essere laico, e viceversa.
Il depositario dovrà interessarsi degli introiti di tutte le elemosine correnti ed ordinarie e di qualunque entrata perverrà al Monte; il cancelliere dovrà tenere nota di tutti gli iscritti all’ope­ra pia, degli introiti delle elemosine e dell’esito delle messe, da confrontare poi con i registri del depositario.
Il sacrestano dovrà “tenere pensiero” di tutto ciò che riguarda la Chiesa, il suo addobbo ed abbellimento; inoltre dovrà affiggere fuori della chiesa o in piazza il giorno prima che si cele­brerà qualche messa, un cartello con il nome del morto.
Poiché il tempio in questione fu costruito per raccogliere le ossa degli Orsini sepolti in Gravina e far celebrare le messe in loro suffragio, fu detta del Suffragio o Purgatorio, onde la presenza dei due scheletri semisdraiati, sovrapposti al caratteristico portale e reggenti l’epigra­fe: “D.O.M. Dominus Ferdinandus Ursinus Gravinensium Dux XI Et Donna Iohanna de Tolfa coniuges. Templum Magnae Dei Genitrici. Piis manibus Suffraganti Dicatum. A fundamentis Erexere. A.D. MDCXLIX”.
Procedendo nella lettura dell’atto ci si imbatte in quelli che saranno gli obblighi da rispet­tare da parte di coloro che vorranno entrare a far parte di detto Monte. Si legge così che di que­st’opera pia potrà far parte qualunque persona di qualunque grado e condizione sociale e ses­so con l’obbligo di pagare un carlino al mese o mezzo o almeno una cinquina: quanto più con­tribuirà al sostentamento tanto più “parteciperà detti SS. mi sacrifici ed altre opere che si faranno”.
Dopo la sua morte ogni fratello o sorella che abbia pagato 1 carlino al mese ha diritto a che la Congregazione celebri per lui 100 messe, a quelli che ne hanno pagato mezzo, 50 messe, e a quelli che hanno pagato una cinquina il mese, 25 messe.
Nelle ultime pagine dell’atto di fondazione si dice che non è proibito al Monte accettare le­gati pii con peso perpetuo, purché però il Monte si accerti che il peso corrisponda alla sostan­za del legato, affinché “in ogni futuro tempo il Monte non ne possa restare aggravato”. Infatti troviamo svariati atti di donatori del sacro Monte.
In una copia dell’originale del 16 aprile 1693, rogato per notaio Nicola Santoro, Antonia de Calabresi nomina erede universale e particolare dei suoi mobili e stabili il venerabile Sacro Monte dei Morti (detto volgarmente la Chiesa del Purgatorio) della città di Gravina. (cfr. b.107 fasc. 1911).
In altra copia di strumento notarile rogato dal giudice a contratti Antonio Chiaradia il 25 feb­braio 1705 si legge che il duca di Gravina (D. Domenico Orsini, figlio secondogenito di Ferdinando Ill Orsini e di D. Giovanna Frangipane della Tolfa, sua moglie), dona al sacro Monte dei Morti ducati 600 alla condizione che i suoi amministratori facciano celebrare 1024 messe piane ogni anno, cioè 20 alla settimana (4 al giorno) in perpetuum, dentro la venerabi­le Chiesa del Sacro Monte dei Morti, in vita pro remissione peccatorum e, una volta morto, per la sua anima.
Ora troviamo quattro copie di istrumenti collazionate e vidimate dal notaio Giuseppe Montemurro in data 20 luglio 1865:

I. Il cancelliere del Sacro Monte dei Morti certifica di aver trovato nell’archivio della chie­sa copia di un istrumento rogato dal notaio Salvatore Brizio nel 1720 col quale il reverendo D. Francesco Capone come procuratore del Sacro Monte faceva quietanza di ducati 1500 al sig. Rocco Bacculo il quale donava alla Chiesa a nome di un pio oblatore detta somma con strumen­to del 12 dicembre 1717 e questi patti: che il Sacro Monte avesse recitato una messa piana al giorno in perpetuo in suffragio delle anime del Purgatorio; che il Sacro Monte avesse impie­gato l’intera somma in acquisto dei beni stabili ad annua entrata; che la suddetta messa si fos­se celebrata o nella chiesa del Sacro Monte o in quello delle monache di S. Teresa; che per det­ta offerta non si erigesse mai una Cappellania ma un semplice peso di messe’.

II. Lo stesso notaio certifica di aver visionato il testamento di Saverio de Antoniis (delle cui carte egli è conservatore) del 12 febbraio 1735 con cui istituisce suo erede universale e “par­ticolare” sopra tutti “li miei beni, lussi, ragioni, azioni e nomi dei debitori” il nipote ex sorore, dott. D. Leonardantonio Barbaro (nel caso fosse morto senza eredi tutto il patrimonio sarebbe andato alla Congregazione di carità, precisamente alla Congrega della SS.ma Vergine Imma­colata, retta dal Rev.do Padre Filippo Cotù nella città di Bitonto, solo nel caso però che detta Congregazione si fosse venuta a situare in Gravina. Non potendosi effettuare ciò, alla morte del suddetto erede, chiede che si fondino tante Cappellanie per quante sono le rendite, con una mes­sa franca la settimana. Tutte le rendite si debbono incorporare con le rendite della Chiesa ve­nerabile del sacro Monte dei Morti, e saranno amministrate dai Governatori di detto monte e rimarranno separate dalle altre rendite della suddetta chiesa).

III. Il notaio Montemurro, conservatore de protocollo del notaio D. Michelarcangelo del­la Nave, dice di aver rinvenuto fra i suoi atti il testamento per atto pubblico del Primice-rio D. Michele de Antoniis, depositata il 17 ottobre 1760, nel quale fra l’altro si dice che «tutto l’as­se ereditario che consiste in detta casa, vigne e tenute e quanto a esse in qual-sivoglia maniera si appartiene ... servisse alla fondazione ... di una Cappellenia perpetua e semplice con una mes­sa al giorno ... dentro la ducal chiesa del Purgatorio di questa città ...”.

IV. Lo stesso notaio certifica di avere trovato fra gli atti in minuta del notaio Michelar­cangelo della Nave il testamento per atto pubblico di Giovan Battista Santoro ricevuto dal det­to notaio il 3 aprile 1760 col quale istituisce erede universale il fratello Michele Santoro. Inoltre vuole ed ordina che esso erede universale fondi con gli esecutori testamentari cinque Cappellanie perpetue, “alla ragione di ducati 401’anno” con una messa franca la settimana nel­la Ducal Chiesa del Purgatorio.

Tra le ultime carte riguardanti l’Opera pia abbiamo una certificazione datata 28 aprile 1876 del Cancelliere del Sacro Monte dei Morti nella quale asserisce che essendo per lui difficile “per non dire impossibile” raccogliere documenti riguardanti i legati, le donazioni ed i lasciti fatti dall’Ente, tanto sono essi numerosi e svariati, gli è riuscito solo di dedurne che soprattutto nei primi tempi della fondazione della chiesa furono fatte varie donazioni agli Amministratori pro tempore “brevi manu” in moneta, in suppellettili, ed immobili al solo scopo di essere iscritti co­me Benefattori e di godere dei suffragi quotidiani secondo le regole della fondazione. Per le molte donazioni gli Amministratori pro tempore ordinarono a vantaggio loro spirituale pii suf­fragi di anniversari e messe ripartiti secondo un ordine particolare.
Le sopraddette disposizioni furono sempre date dagli Amministratori “in base agli introi­ti e secondo lo spirito della fondazione dalla quale veniva loro tanta facoltà”.

8 Ente Comunale di Assistenza di Gravina

Archivio delle Opere Pie e Congregazione di carità (bb. 162; regg. 406) (1766‑1937)

Gli atti costituenti la cosiddetta “sezione separata di archivio” dell’Ente Comunale di Assistenza di Gravina, vale a dire l’archivio delle Opere Pie e Congregazione di Carità, ri­vestono un’importanza storica fondamentale per chiunque intenda dedicarsi a studi e ricer­che sulle attività di assistenza e beneficenza svolte in questo comune, in particolare dalle Opere Pie, soprattutto a partire dal secolo XVIII.
Il patrimonio documentario in questione, disordinatamente ammassato in un angusto lo­cale dell’orfanotrofio Femminile “S. Antonio”, rese necessario l’intervento della Sovrin­tendenza Archivistica per la Puglia al fine di consentire il recupero e il riordinamento di que­ste antiche scritture.
E’ stato così possibile ricostruire le serie archivistiche così come si erano prodotte nel cor­so dei secoli, lungo un arco cronologico che si estende dal 1766 al 1937, tenendo conto del­le tappe fondamentali dell’evoluzione storico‑amministrativa attraversate dalle istituzioni in oggetto. E’ noto infatti che fino alla metà del XVIII secolo le Opere Pie nelle province na­poletane furono soggette all’ingerenza amministrativa vescovile; nel 1806, con l’occupazio­ne francese, il patrimonio delle Opere Pie fu considerato bene di libera disposizione e l’am­ministrazione di Ospedali Civili, Ospizi di Mendicità e Stabilimenti di beneficenza fu affi­data al Ministero dell’interno; nella città di Napoli la tutela e la vigilanza della nuova am­ministrazione furono affidate al Consiglio degli Ospizi, presieduto dall’Intendente, istituzio­ne che fu estesa a tutto il Regno con la restaurazione dei Borboni nel 1816, anno in cui, at­traverso decreti e provvedimenti sussidiari fu costituito un regime delle Opere Pie organi­co e completo.
Dopo vari provvedimenti volti ad istituzionalizzare l’intervento dello Stato in materia di gestione dell’assistenza e beneficenza pubblica, all’indomani dell’unificazio-ne nazionale, con la legge 3 agosto 1862 n. 753 furono istituite in tutti i comuni le congregazioni di cari­tà. Si trattò della prima legge atta a disciplinare e regolamentare quanto era stato acquisito nelle epoche precedenti in materia di Opere Pie.

A questa legge fa seguito quella del 17 luglio 1890 n. 6972, volta ad eliminare le imper­fezioni e colmare le lacune da cui non era esente la legge del 1862, in particolare si dispo­se il concentramento delle istituzioni elemosiniere nelle congregazioni di carità, il raggrup­pamento delle istituzioni di beneficenza pubblica con caratteristiche simili, e si impose in­fine la trasformazione di istituti inutili e superati. Ma, pur essendo le finalità di questa leg­ge rivolte a devolvere allo Stato l’attività assistenziale, tuttavia ragioni prevalentemente sto­rico‑politiche continuarono a favorire il prevalere delle forme di beneficenza facoltativa in un clima caratterizzato da carenze di coordinamento e dalla eccessiva lentezza di tutti i ser­vizi relativi alla pubblica beneficenza.
Le congregazioni di carità vennero infine soppresse con la legge 3.ó.1937 n.847, che isti­tuiva in ogni comune l’Ente Comunale di Assistenza.
In base alla legge del 1890 nella Congregazione di carità confluirono tutte le Opere Pie del comune di Gravina, i cui patrimoni e le cui rendite furono mantenuti distinti e con am­ministrazioni separate. Sicché, come risulta dall’inventario compilato al termine del riordi­namento delle scritture, la I parte comprende le carte di tutte le Opere Pie del comune di Gravina, vale a dire:

1) Asilo infantile: fondato con delibera dell’e agosto 1869 e del 23 marzo 1870 della Con­gregazione di Carità fu eretto un Ente Morale con R.D.9 giugno 1870 allo scopo di prov­vedere alla educazione, custodia e alimentazione dei fanciulli poveri di ambo i sessi del comune. Negli anni 1868‑1870 assorbì l’Opera Pia “Ricovero di Mendicità”.

2) (Legato) Casini: costituito con testamento del 18 novembre 1860 da Giuseppe Nicola Casini allo scopo di sovvenire ai poveri della città di Gravina, fu accettato dalla Congre­gazione di Carità a seguito di R.D. 12 ottobre 1862.

3) Orfanotrofio Femminile: fondato con atto 28 maggio 1787, eretto in Ente Morale con Breve Pontificio del 19.1.1828 e munito di Regio “exequatur” del 18 aprile 1828, fu ri­costituito ed aggregato alla Congregazione di Carità con delibera della stessa dell’e. no­vembre 1875 e altra del consiglio comunale di Gravina del 15 dicembre dello stesso an­no e R.D. 22 settembre 1876. Aveva per scopo il ricovero e l’educazione delle ragazze povere del comune preferibilmente trovatelle ed orfane.

4) (Legato) Puzziferri: fu costituito con testamento dell’11 aprile 1858 da Michele Puzzi­ferri allo scopo di elargire elemosine ai poveri del comune.

5) Reale Albergo dei Poveri: nell’archivio dell’E.C.A. sono conservate esclusivamente le scritture relative al patrimonio e contabilità dell’Ente stesso, cioè quelle relative ai beni che l’Ente possedeva in Gravina.

6) Ricovero di mendicità: sorto presumibilmente prima del 1829 fu trasformato nel 1868­70 in Asilo infantile; nel 1870 fu steso un nuovo statuto organico. Fu una delle ultime ope­re pie del Comune ad essere concentrata nella Congregazione di Carità (1910).

7) Sacro Monte dei Morti: fondato il 10 aprile 1649, nel 1893 dopo una lunga vertenza giu­diziaria, fu incorporato nella Congregazione di Carità, nel 1869 furono approntate variazioni al suo statuto organico.

8) SS. Sacramento: proveniente da un’antica confraternita, fu trasformata in fondazione di beneficenza con R.D. 23 agosto 1900 allo scopo di portare sussidi alle altre Opere Pie qua­li Orfanotrofio Femminile, Ospedale S. Maria del Piede, Asilo infantile e in genere ai po­veri di Gravina.

9) S. Maria del Piede ovvero Ospedale Civile: antica Congrega che nel 1585 beneficiò di un legato di 24 ducati annui fatti da un tal Michele Bartolomeo al fine di corrispondere maritaggi alle fanciulle povere; fu sciolta a seguito di sentenza del Tribunale Misto; per­tanto l’amministrazione delle rendite fu affidata nel 1810 alla Commissione degli Ospizi di Gravina affinché si provvedesse alla cura gratuita dei poveri della città affetti da ma­lattie acute, non infettive e da morbi chirurgici.

10) Santa Maria di Costantinopoli: proveniente da un’antica Cappella, sciolta con R. Dispaccio 11 luglio 1804, fu amministrata dalla Commissione Comunale degli Ospizi senza alcuna speciale destinazione.

La II parte del fondo, di ben poca consistenza, comprende le scritture relative alla Commissione degli Ospizi di Gravina, alla quale era affidata la vigilanza degli Ospedali, de­gli Ospizi di mendicità e degli stabilimenti di beneficenza operanti nel comune fino al 1862.
La III parte comprende gli atti della Congregazione di Carità, dal 1863, data della sua isti­tuzione, al 1937, data della sua sostituzione con l’E.C.A..

9 Prefettura

Il fondo Prefettura conserva relativamente al comune di Gravina documentazione degli anni 1870‑1970. Le prime due serie (Affari generali e Affari comunali) raccolgono materia­le relativo ai lavori pubblici svolti nel paese, ai regolamenti comunali. E’ presente anche la documentazione relativa alla Fondazione E. Pomarici‑Santomasi per gli anni 1920‑37: ol­tre a carte relative alla gestione amministrativo‑contabile dell’ente (bilanci, verbali di veri­fica di cassa), è da segnalare lo Statuto organico e una pubblicazione “In memoria di Ettore Pomarici‑Santomasi nel I anniversario della morte” (1918) prodotta dalla Banca Coopera­tiva agraria di Gravina.
La terza serie conserva carte relative alle vicende istituzionali e all’attività delle Opere Pie presenti in Gravina dal 1871 al 1945.
La documentazione del Gabinetto della Prefettura risulta particolarmente impor-tante per la conoscenza delle vicende politiche e dell’assetto socio‑economico del paese. Di notevo­le interesse risultano, ad esempio, le categorie relative all’ordine pubblico, all’amministra­zione comunale e ai sindaci, alla situazione della disoccupazione.
Dall’esame della documentazione sull’ordine pubblico in Gravina, che è relativa agli an­ni 1920‑30, (cat. 19.8 Ordine Pubblico) si evidenzia all’interno del paese, uno stato di con­tinua tensione determinata essenzialmente da due fattori: la disoccupazione contadina e la esplosione ricorrente di scontri tra fascisti e socialisti.
Vengono segnalati numerosi episodi di violenza generati dal conflitto tra proprietari ter­rieri e contadini relativamente all’ingaggio di manodopera proveniente da altri comuni, pre­ferita dalla proprietà perché più a basso costo. Tale problematica, più diffusamente trattata nella documentazione relativa alla disoccupazione, emerge da una relazione del sottoprefet­to di Altamura del 1920 nella quale si fa riferimento all’intenzione della cooperativa agri­cola dei lavoratori di occupare le terre lasciate incolte delle masserie S. Nicola e S. Giacomo di proprietà di Pasquale Pellicciari.
Sulla difficile situazione economica si innestano episodi di continua violenza tra fasci­sti e socialisti. Sempre il sottoprefetto, nel luglio 1922, esprime il timore che i fascisti ten­tino “di agire in forze contro il Municipio”, contro un’amministrazione comunale peraltro già sotto inchiesta, e che vengano compiute le minacciate distruzioni della Camera del lavo­ro e del raccolto della cooperativa agraria dei contadini.
Dalla documentazione si rileva inoltre la condizione del fascio di Gravina del quale da più parti viene invocato lo scioglimento, data la presenza in esso di elementi di dubbia mo­ralità. Tale situazione, nonostante l’arrivo a Gravina nel 1923 di un commissario fascista straordinario e numerosi altri tentativi di soluzione rimarrà una costante della vita politica del paese. In una relazione del 2 maggio 24 il commissario prefettizio espone gravi consi­derazioni sulla corruzione esistente e sottolinea come tale problema coinvolga anche l’azien­da elettrica municipalizzata.
Nel 1925, nel riferire su un grave fatto di sangue tra fascisti di diverse correnti, il sotto­prefetto richiama ancora alla necessità di una “epurazione del fascio”.
Tra i numerosi incidenti di cui la documentazione riferisce, risultano particolarmente gra­vi quelli del 10 settembre 1924 definiti come veri e propri moti sediziosi sfociati nel ferimen­to di numerose persone e nel decesso di un socialista.
Nella cat.35‑2 (Disoccupazione) del Gabinetto della Prefettura è presente, per quanto at­tiene al comune di Gravina, la documentazione relativa agli anni 1927‑46.
La disoccupazione contadina si presenta particolarmente accentuata, (per il 1931 viene calcolata in 600 persone, per il 1946, 898). In comunicazioni, inviate al prefetto, relative ai disordini scoppiati il 14 gennaio 1931, si sottolinea come si sia venuta a creare una situazio­ne di particolare disagio “sia per la serrata dei lavori delle ferrovie Calabro‑Lucane, sia per la limitazione dei lavori in campagna a causa della crisi economica in cui versano gli agri­coltori, specie per il calo del prezzo del grano”. La problematica risulta aggravata dal pro­blema dell’ingaggio da parte dei proprietari terrieri e delle ditte appaltatrici di lavori ferro­viari e stradali, di manodopera proveniente da altri comuni, economicamente più con­veniente.
E’ da segnalare nel 1946 una denuncia, inviata all’autorità giudiziaria e al prefetto da par­te della Commissione comunale paritetica di avviamento al lavoro di disoccupati agricoli, in cui si fa presente la non osservanza da parte dei datori di lavoro delle disposizioni relati­ve all’ingaggio obbligatorio.
Da più parti vengono avanzate proposte per la soluzione del problema: l’Unione reduci combattenti e partigiani, ad esempio, richiede nel 1946 la concessione in enfiteusi di alcu­ne aziende rurali e del bosco comunale; proprio nel ‘46 un gruppo di reduci occuperà i ter­reni delle masserie Martoro e S. Mauro di pertinenza dell’E.C.A. e dell’Ente morale Pomarici‑Santomasi. D’altro canto è stato già ricordato come sin dal 1920 fossero state mi­nacciate invasioni di terre incolte.

Altro rimedio invocato a sollievo della disoccupazione è la realizzazione di lavori pub­blici, in particolare stradali e ferroviari. Nel 1931 la Società Mediterranea, già impegnata nel­l’esecuzione di lavori stradali, si impegna, per lenire la disoccupazione invernale, ed aggiun­gere ad un programma già definito di lavori, quelli per la costruzione della stazione di Gravina, di un sottovia ferroviario, e per la deviazione della strada statale n. 97. In realtà nel­l’inverno del ’32 solo una parte dei progetti verranno realizzati.
In una relazione del 1946 un assessore, sollecitando l’attuazione di un programma di la­vori stradali, ricorda la positiva opera svolta da un gruppo di disoccupati impegnati nella bo­nifica del canale Capodacqua.
La situazione esploderà in maniera drammatica nello sciopero del 20 ottobre 1947 sfo­ciato in un vero e proprio tumulto. Il prefetto in una relazione al ministro dell’Inferno, nel descrivere la situazione di malcontento che un tempo scuoteva il bracciantato agricolo, fa presente che “gli scioperanti erano diretti da un comitato di agitazione non controllato nè dal­la locale autorità comunale, nè dai dirigenti sindacali” avendo ormai i disoccupati manife­stato “la loro assoluta sfiducia verso l’una e verso gli altri”. Il prefetto sollecita l’invio di fon­di per l’esecuzione di opere pubbliche e sottolinea come ormai “esiste nel capoluogo e nei grossi centri della provincia uno stato di particolare gravissimo disagio per il notevole nu­mero di disoccupati ormai sfiduciati e stanchi di attese e promesse”.
Di particolare interesse nella documentazione conservata, un ritaglio del quotidiano “Momento sera” del 2 dicembre 1947 relativo alla proclamazione in Gravina della “repub­blica rossa, seconda repubblica popolare (Bitonto era stata la prima), instaurata nella regio­ne pugliese”.
Il materiale documentario inerente ai sindaci di Gravina è relativo agli anni 1873‑1943. Esso consente una ricostruzione abbastanza dettagliata delle vicende dell’amministrazione comunale in quanto, oltre agli incartamenti relativi alla nomina del sindaco (decreto di no­mina, verbale di giuramento), spesso vi si rinvengono relazioni inviate dal sottoprefetto al prefetto nei casi, peraltro piuttosto ricorrenti, di controversie giudiziarie in cui il sindaco fos­se coinvolto; è da segnalare come spesso in Gravina il sindaco non arrivi al termine del suo mandato proprio per situazioni personali o per contrastate vicende politiche.

ELENCO DEI SINDACI E DEI PODESTA’ DI GRAVINA

1873 ‑ Ottobre GRAMEGNA MICHELE
1876 ‑ Gennaio ABBRUZZESE GIUSEPPE
1877 ‑ Novembre POLINI ANTONIO
1879 ‑ Ottobre “ “
1879 ‑ Febbraio “ “ (facente funzioni MOLA MICHELE)
1882 ‑ Marzo “ “
1885 ‑ Novembre D’ALONZO GIUSEPPE
1888 ‑ Agosto CALDERONI PASQUALE
1889 ‑ Febbraio LETTIERI DOMENICO
1889‑ Novembre CALDERONI PASQUALE
1891‑ Agosto LETTIERI DOMENICO
1891‑ Ottobre GRAMEGNA GIUSEPPE
1893‑ Novembre “ “
1895‑ Luglio ABBRUZZESE GIUSEPPE
1899‑ Agosto BRUNO MICHELE
1903‑ Settembre PELLICCIARI GIUSEPPE
1906 ‑ “ “
1907 ‑ Maggio MARVULLI SERGIO
1908 ‑ Ottobre ANGELASTRO BENIAMINO
1910 ‑ Aprile MUSACCHIO GIUSEPPE
1914 ‑ Agosto “ “ (facente funzioni IANORA PIETRO)
1921 ‑ Marzo “ “
1925 ‑ Luglio PELLICCIARI VITO GIUSEPPE
1927 ‑ Marzo PELLICCIARI VITO GIUSEPPE ‑ podestà
1931 ‑ Febbraio NARDONE DOMENICO
1935 ‑ Gennaio SCARDINALE PIETRO
1936 ‑ Gennaio TOTA VINCENZO
1939 ‑ Febbraio CAPONE SPALLUTI MICHELE
1942 ‑ Febbraio MERCADANTE FRANCESCANTONIO

Ferrovie

La serie Ferrovie del Fondo Prefettura tratta della nascita e dell’affermarsi della rete fer­roviaria in Puglia, quindi tocca argomenti che vanno dalla progettazione all’analisi del ter­ritorio, dall’espropriazione dei terreni interessati alla costruzione materiale della rete ferro­vviaria, comprendendo tutti quei rapporti giuridici e controversie che scaturiscono come ef­fetto collaterale di tali atti.
La serie consta di 98 fasci per un arco di tempo che va dal 1851 al 1915; su Gravina esi­ste la costruzione della linea ferroviaria Potenza‑Gravina‑Montepeloso (odierna Irsina), e della linea Rocchetta‑Melfi‑Barletta‑Spinazzola, la prima nel 1866, la seconda nel 1889; am­bedue le costruzioni danno vita ad una serie di atti conseguenti: espropriazioni, svincoli di indennità a nome di proprietari terrieri come Vincenzo Trotta, Poli, Pellicciari, Spalluti, Spagnuolo, etc., decreti di occupazione di fondi, verbali di cessione di fondi.

10 GUARDIA NAZIONALE

Nel Regno delle due Sicilie la Guardia Nazionale fu istituita con legge 15 marzo 1848 se­guita poi dalla legge 5 luglio 1860. Questa milizia, composta da cittadini atti alle armi, ave­va il compito di mantenere l’ordine pubblico e di sostituirsi, se necessario, alla truppa rego­lare. Per ricostruire la storia della Guardia nazionale di Gravina è necessario consultare la bu­sta 40 della serie Guardia nazionale dei Fondi Intendenza e Prefettura della Provincia di Terra di Bari. Questa milizia cittadina ebbe a Gravina una organizzazione provvisoria nel 1860 come risulta dalla deliberazione decurionale del 28 luglio e dai relativi Stati nominativi (fascicolo 549, busta 40).
Sono conservati inoltre il Bilancio per il 1869 delle spese per la Guardia nazionale (fa­scicolo 566); le liste dei candidati ed i verbali di elezione degli ufficiali e dei graduati (fasc. 553); lo stato delle forniture di olio e carbone ed armi; le liste dei candidati ed i verbali di ele­zione degli ufficiali e dei graduati (fasc.552); la contabilità relativa al rimborso delle som­ministrazioni militari (fasc.558) e, tra le altre cose, nel fascicolo 549 è custodita l’istanza del 17 marzo 1862 inviata al Prefetto della provincia dal Sindaco di Gravina che, sollecitato dai Consiglieri comunali e da numerosi cittadini, chiedeva l’istituzione di un drappello di arti­glieria ausiliaria alla Guardia Nazionale.
L’autorizzazione fu però rifiutata dal Ministro dell’interno che l’il aprile 1862 comuni­cava al Prefetto: “il sottoscritto ... non può aderire a tale istanza, giacché ha il Ministero adot­tato.... la massima di non consentire all’istituzione di corpi speciali nella G.N.... avendo l’e­sperienza dimostrata ... che il servizio viene troppo a soffrirne”.
Per gli anni 1927‑43 la documentazione relativa alla nomina dei podestà, conservata nel III versamento del Gabinetto della Prefettura, si rivela particolarmente ricca in quanto da es­sa è possibile trarre non solo informazioni sulle vicende politiche dell’amministrazione co­munale ma anche sulle condizioni dello spirito pubblico nel paese attraverso le relazioni in­viate al prefetto dalle autorità pubbliche prima della nomina di un nuovo podestà.
La categoria Amministrativa comunale, inerente al periodo 1911‑1964 ci consente uno sguardo approfondito sulla situazione del comune. Il dato rilevante è la costante presenza di rapporti informativi o relazioni ministeriali (ad esempio l’inchiesta Gallotti del 1912 o la re­lazione ministeriale del 1950) che ribadiscono per tutto l’arco cronologico una situazione di instabilità e di crisi morale drammaticamente sentita dalla popolazione.

11 Commissione provinciale di sorveglianza per l’amministrazione e vendita dei beni ecclesiastici, verbali dl aggiudicazione

La documentazione relativa all’Asse Ecclesiastico” conservata presso l’Archivio di Stato di Bari, si riferisce alla vendita di beni degli Enti religiosi passati al Demanio dello Stato in virtù del regio decreto n.3036 del 7 luglio 1866 e della Legge n. 3848 del 15 agosto 1867. In base al dettato della citata legge non furono più riconosciuti come Enti morali i capitoli della chiese collegiate, le chiese ricettizie, le comunie, le cappellanie, i benefici e tutta una serie di istituzioni aventi carattere di perpetuità. Gli immobili di proprietà degli enti in og­getto e quelli già passati al demanio per effetto del Regio decreto 7 luglio 1866, furono ge­stiti ed alienati dall’amministrazione demaniale sotto l’immediata sorveglianza di una Com­missione istituita per ogni provincia del Regno e composta dal Prefetto, in qualità di presi­dente, dal procuratore del Re presso il Tribunale del capoluogo delle provincie, dal Direttore del Demanio o da un suo delegato e da due cittadini eletti ogni due anni dal Consiglio Provinciale o fuori dal suo seno. Ad esso spettava deliberare sui contratti di locazione, mez­zadrie, di vendita, sulla divisione in lotti e sopra tutto ciò che potesse riguardare l’ammini­strazione e le alienazioni dei beni indemaniati, mentre al Direttore del demanio, poi, Intendente di Finanza, spettava esclusivamente l’amministrazione di fatto e l’esecuzione delle delibere della Commissione.
Soprintendeva all’amministrazione e sull’andamento delle alienazioni una Commis-sione centrale di sindacato, presieduto dal Ministro delle Finanze.
Gli atti prodotti dalla Commissione provinciale di sorveglianza, insediata presso la Prefettura di Bari, per la vendita dei beni indemaniati del comune di Gravina, si riferiscono al periodo compreso tra il 1867 ed il 1890. La parte più cospicua delle vendite si registra nell’anno 1873 (65 vendite su un totale di 185 effettuate in questo arco di tempo). Secondo le prescrizioni della Legge del 15 agosto 1867 e del relativo Regolamento, i beni immobili do­vevano essere divisi in piccoli lotti, prima di essere destinati alla vendita per mezzo di pub­blici incanti, tenendo conto degli interessi economici, delle condizioni agrarie e delle circo­stanze locali. Dai dati a nostra disposizione risulta che, nel comune preso in esame, i beni non furono sempre suddivisi con un criterio rispondente alle disposizioni legislative. Per quan­to riguarda i terreni si parte da una estensione inferiore a un ettaro (come un giardino attiguo alla Chiesa Cattedrale di are 3 e centiare 43) fino al raggiungimento dei 33 ettari (il caso di un fondo, parte seminativo e parte erboso sito in contrada “pozzo Peteo”, dell’estensione di ettari 33, are 83 e centiare 21).
A parte sono da considerare le masserie costituite da terreni di diversa natura e fabbrica­ti rurali, poste in vendita in un unico lotto. Esse raggiungono estensioni assai elevate, da su­perare i 100 ettari. Sono circa 10 masserie, tra le quali le più estese sono: la masseria in con­trada “vado della Torraca” seminativa, erbosa con fabbricato rurale, dell’estensione di etta­ri 289, are 98 e centiare 79 e quella in contrada “Annunziata”, seminativa, erbosa e bosco­sa con fabbricato rurale di ettari 177, are 02 e centiare 43, mentre le altre non superano i 150 ettari. Gli immobili che lo stato incamera dagli Enti morali soppressi riguardano fabbrica­ti e terreni; questi ultimi sono: seminativi, boscosi, paludosi, ortivi, oliveti, vigneti, giardi­ni e misti, i fabbricati si distinguevano in abitazioni, botteghe, stalle e cantine. Al primo po­sto per estensione sono i terreni seminativi, quanto ai fabbricati, superano di poco le 100 uni­tà. Gli Enti ecclesiastici dai quali il Demanio incamera i detti beni sono i seguenti: il Capitolo Cattedrale, il Capitolo di S. Nicola Protontino, la Mensa Vescovile, il Seminario, il benefi­cio di S. Bartolomeo, il beneficio di S. Antonio di Vienna, il beneficio dei SS. Teodoro e Mauro, la sacrestia della Chiesa Cattedrale e la Congregazione dell’Annunziata. Dall’esame dei contratti di vendita dei 185 lotti del territorio, risulta che lo stato ha incamerato la som­ma di circa un milione, per lo più ricavata dalla vendita delle masserie (circa £.600.000). Ciò è spiegabile dal fatto che, a differenza degli altri terreni, suddivisi in base alla loro natura e posti al pubblico incanto in piccole estensioni, esse raggiungevano dimensioni assai note­voli, pertanto anche il prezzo di aggiudicazione raggiungeva valori elevati (toccando la pun­ta massima di £. 106.200 il lotto in contrada “Barisci”, parte seminativo e parte erboso con fabbricato rurale, di ettari 133, are 73 e centiare 19).
Va sottolineato, inoltre, che a determinare l’alto prezzo dello stabile, non contribuiva so­lo l’estensione, ma anche la buona qualità del terreno. Gli acquirenti dei 185 lotti furono cir­ca 100, risulta pertanto evidente la non corrispondenza con il numero dei lotti venduti, in­fatti molti degli acquirenti riuscivano a comprare diversi lotti piccoli. I ceti possidenti, pe­rò riuscivano ad accaparrarsi i lotti più estesi e più fertili dei beni della Chiesa. Infatti, tut­te le masserie ed i lotti migliori, furono acquistati dalle stesse persone. Sono da ricordare, a tal proposito, Pellicciari Pasquale, sindaco all’epoca del Comune di Gravina, e Gramegna Michele. Entrambi, però, compravano non solo nell’interesse proprio e delle loro famiglie, ma anche nell’interesse di altri. Il primo, a volte come rappresentante del comune altre volte nel­l’interesse di Boccardi Leonardo, D’Agostino Michele, Trotta Michele, Lamuraglia Francesco, Lamuraglia Nicola, Gramegna Gerardo, Mastrogiacomo Oronzo, Sorino Michele, Pace Celestino e Dell’Era Vito, mentre Gramegna Michele acquistava unitamen­te a Pellicciari Alfonso, Spalluti Girolamo ed Angelastro Beniamino.

12 Subeconomati diocesani dei benefici vacanti

Il beneficio ecclesiastico è una persona giuridica pubblica a base patrimoniale, eretta dall’autorità ecclesiastica competente, i cui redditi servono al sostentamento del titolare dell’uf­ficio sacro. Esso trae origine dalla disgregazione dell’unico patrimonio della diocesi per provvedere prima al mantenimento degli ecclesiastici inviati nelle campagne e poi anche a favore di quelli delle città, in conseguenza della creazione delle parrocchie.
In Italia, prima del concordato, lo Stato percepiva la rendita dei benefici vacanti trami­te gli economati e subeconomati. Questi economati e subeconomati furono istituiti con de­creto luogotenente generale delle province meridionali il 17 febbraio 1861 al fine di disci­plinare ed amministrare i benefici ecclesiastici delle varie diocesi che si rendevano vacan­ti per mancanza del loro titolare (ad essi competevano pure la vigilanza sui benefici Sede piena.
Con il concordato del 1929 lo Stato italiano rinunciò ad ogni regalia e l’amministrazio­ne dei benefici vacanti fu disciplinata dal diritto canonico. Gli archivi dei subeconomati furono, quindi, trasferiti presso le Prefetture competenti per territori e dalle Prefetture pas­sarono agli Archivi di Stato.
Gli atti dei Subeconomati della Provincia (1861‑1931) che si conservano nell’Archivio di Stato di Bari si riferiscono alle seguenti diocesi:
Andria, Bari, Bitonto, Bisceglie, Conversano, Giovinazzo, Gravina, Montepeloso (Ir­sina), Molfetta, Monopoli, Ruvo di P., Terlizzi, Trani.

13 Giudiziario

La più recente storia “sociale” si sforza di aprire uno spazio nuovo e facilita così l’indi­viduazione della dialettica reale fra i ceti sociali, visti soprattutto sotto il profilo della loro incessante conflittualità politica e sindacale.
Tale prospettiva di ricerca comporta la necessità di trovare nuove metodologie di approc­cio alla storia dei movimenti popolari e nuove fonti idonee a sostenere documentariamen­te il rinnovato sforzo interpretativo. Anche i processi penali a sfondo politico, poco studia­ti nella loro globalità, ben si prestano ad una lettura complessiva dei livelli di conflittualità sociale e politica e dei meccanismi della risposta “giudiziaria” dello Stato.
Un accurato spoglio degli atti della magistratura costituisce la fonte essenziale per co­gliere i punti più critici nel rapporto tra le masse popolari e lo Stato.
A guardare le tematiche emergenti dai processi penali spicca subito la pluralità dei livel­li di osservazione possibili attraverso le notizie sui gruppi di opposizione, gli inserti di opu­scoli e giornali sequestrati, le forme della protesta sociale, quali possono essere i tumulti, gli scioperi, gli incendi, i saccheggi, le occupazioni delle terre, le violenze elettorali, la repres­sione della libertà di associazione di stampa, le violenze fasciste, le manifestazioni contro la disoccupazione ed il carovita.
E’ chiaro, quindi, che attraverso una lettura orizzontale dei processi penali è possibile ri­costruire, nei suoi elementi di maggiore espressione, la storia delle classi subalterne.

Sommossa dei contadini

Nell’ambito delle opposizioni che si verificano tra i differenti ceti sociali può essere uti­le analizzare la sommossa dei contadini avvenuta nell’agro di Gravina ai danni della fami­glia D’Ecclesis il 25 ottobre 1920.
Nel processo verbale redatto dai Carabinieri Reali di Gravina si legge che un gruppo di contadini si sarebbe recato presso la casa del D’Ecclesis per esigere le giornate di disoccu­pazione che costui avrebbe dovuto versare alla lega socialista.
Ottenuto un secco rifiuto, i contadini, insieme ad altre persone “di diversi mestieri”, de­cidono di penetrare nell’abitazione attraverso il giardino e con l’ausilio di un “carretto”. A quel punto il figlio diciannovenne del D’Ecclesis, Michele, cerca di intimidire gli assalito­ri sparando in aria due colpi di fucile. Ma i contadini non si rassegnano, neanche l’arrivo del Sindaco e dell’Assessore, che esigono dal giovane spiegazioni sull’accaduto, riesce a seda­re gli animi. La porta del giardino viene sfondata ed uno dei portoni principali cosparso di petrolio ed incendiato.
L’intervento dei Carabinieri guidati dal Pretore impone solo una relativa calma. “Se non chè verso le ore 19, una turba di circa 500 persone” sobillata da un pregiudicato reclama l’ar­resto di Michele D’Ecclesis e minaccia l’assalto del palazzo e la morte dei proprietari.
Spaventati e indifesi di fronte a questi “insani propositi”, gli Agenti simulano l’arresto e scortano insieme al Pretore il D’Ecclesis presso il Carcere Mandamentale, dove giungono tutti feriti per le percosse ricevute dalla folla seriamente intenzionata a linciare il ragazzo.
Più tardi sarà identificato e arrestato il sobillatore, reo confesso di aver istigato la mol­titudine e “di aver dato il colpo di bastone sul dorso del naso” di un Carabiniere, e con lui al­tre 50 persone.
Gli imputati, difesi anche dall’avv. Giuseppe Di Vagno, non saranno tutti condannati.

ASB, Tribunale di Bari ‑ Fascicoli Penali, fascicolo 1947

Tribunale di Bari ‑ Fascicoli penali (f 2048)

Emilio Faivre ed altri Disordini elettorali

Dalla lettura della sentenza del Tribunale di Bari emanata il 30 agosto 1922 in Bari, giu­dice istruttore Alessandro Lupoli, è possibile evidenziare gli avvenimenti di quella violen­za popolare esplosa dopo le elezioni politiche svoltesi in Gravina il 16 maggio 1921.
Con un rapporto datato 20 maggio 1921 il commissario di P.S. di Gravina riferisce un ca­so di ferimento ai danni del medico Filippo Massari avvenuto il giorno 16 maggio nei loca­li del consorzio agrario adibito a circolo del fascio giovanile.
Il suddetto Massari, nell’accorrere in aiuto di tale Faivre Emilio si trova coinvolto in una rissa animatasi tra quest’ultimo ed alcuni avversari socialisti.
Alcuni individui sparano vari colpi di rivoltella e la colluttazione degenera ben presto in una vera e propria sommossa popolare, con lo stesso Massari coinvolto, in quanto Presidente del Blocco Nazionale e quindi appartenente alla fazione opposta ai rivoltosi.
La forza pubblica non riesce a placare la folla che insorge con grida e colpi di pietra ma­nifestando l’intendimento di voler trucidare il Massari, resosi colpevole di aver preso le di­fese del Faivre. Il medico, in un breve momento di calma, si rifugia nell’abitazione di un ta­le Moramarco in via S. Nicola. La casa però viene ben presto circondata dai rivoltosi che pe­netrano nell’abitazione passando dai tetti.
Gli agenti intervenuti non sono in grado di evitare il ferimento del Massari colpito da ran­dellate al capo e allo zigomo sinistro.
Lo stesso medico identificherà in seguito i suoi aggressori uno dei quali gli aveva intima­to di gridare “viva il socialismo” con la minaccia della decapitazione.
La sentenza del Tribunale di Bari emanata il giorno 23 giugno 1924 accerta la responsa­bilità penale della persona colpevole di aver esploso il giorno 16 maggio 1921 dei colpi di rivoltella in direzione di Faivre Emilio senza colpirlo.
Vengono inoltre accertate le lesioni subite dal Massari che riconosce chiaramente gli aggressori.

ASB, Tribunale di Bari ‑ Fascicoli Penali, 2048

Tribunale di Bari ‑ Fascicoli penali (f 2123)

Pietrafesa Flippo ed altri “Offese alla persona di Mussolini”

Il giorno 12 maggio 1927 viene celebrato il processo penale nei confronti di Pietra-fesa Filippo, Terlizzi Michele, Battista Nicola, assistiti dal difensore Pontrelli Pasquale. Da quanto si evince dal processo verbale di dibattimento, si costituisce parte civile tale Accettura Nicola difeso dall’avvocato Ferrara Riccardo. Il 12 aprile 1927 si verifica infatti un tafferu­glio tra quest’ultimo e il Battista Nicola il quale, armato di coltello, tenta di colpire alle spai­le l’Accettura, mentre il Pietrafesa e il Terlizzi si rendono colpevoli di aver proferito, accom­pagnate da un gesto osceno, parole ingiuriose nei confronti di Mussolini.
Nell’interrogatorio l’Accettura afferma che tale accusa nei confronti del Pietrafesa non è dettata da alcun sentimento di rancore nei confronti di quest’ultimo.
Le dichiarazioni apportate dai testimoni circa l’avvenimento accaduto all’interno del caf­fè Morizio risultano contrastanti, soprattutto per quanto attiene al tentativo di ferire l’Accettura con il coltello mentre i vari testimoni che sfilano davanti al magistrato sono tut­ti concordi nel riferire di aver udito parole di offesa al fascismo ed al capo del governo.
Da quanto afferma un testimone, appare che il Pietrafesa, che aveva fatto istanza di iscri­zione al fascio di Altamura, si trovava in una posizione conflittuale nei confronti dei socia­listi, dei quali era stato compagno di fede, benché non tesserato, e dei fascisti che lo crede­vano ancora appartenente alla parte avversa. La deposizione di tale Lamparelli Pasquale sembra scagionare dall’accusa di oltraggio al fascismo sia il Pietrafesa che il Terlizzi in quan­to il testimone afferma di non aver mai udito da questi ultimi alcunché di offensivo nei con­fronti di chicchessia.
A questo punto si ritiene opportuno interrogare il maresciallo Catino Giuseppe che ave­va redatto la denuncia. Costui afferma che al momento dei fatti non aveva trovato conferma, dalle deposizioni dei proprietari del Caffè, di quanto era accaduto: che cioè il Pietrafesa e il Terlizzi si fossero resi colpevoli di oltraggio al fascismo, benché fosse stato così affermato nella denuncia effettuata dal Contacessi ed altri.
La sentenza emanata il 4 giugno 1927 conferma la responsabilità penale nei confronti del­l’imputato Battista per il reato di tentata lesione con arma nella persona di Accettura, costi­tuitosi parte civile e condanna il medesimo al risarcimento dei danni, interessi e spese.

ASB, Tribunale di Bari, Fascicoli Penali, fascicolo 2123

14 Sovrintendenza ai Monumenti

Presso l’Archivio di Stato di Bari sono stati versati, in esecuzione dell’art. 32 della leg­ge 1409/63, l’Archivio della Sovrintendenza ai beni ambientali, soppresso in seguito alla attuazione regionale del D.P.R. n. 616/77 che demanda la materia delle bellezze naturali al­le competenze regionali. L’esclusione di una riserva di competenza statale non comporta, pe­rò, automaticamente l’affidamento della medesima alle Regioni. Difatti l’art. 82 del D.P.R. suddetto parla di pura e semplice delega che concerne l’individuazione delle bellezze natura­li, la loro tutela e le relative sanzioni. Passano così alle Regioni tutte le competenze statali inerenti alla formazione degli elenchi, alla loro approvazione e alla notificazione della di­chiarazione di notevole interesse pubblico ai proprietari, possessori o detentori delle cose sottoposte a vincolo. Le residue competenze esercitate tuttora direttamente dagli organi sta­tali si realizzano nell’esercizio della funzione di indirizzo e coordinamento mediante deli­berazioni del Consiglio dei Ministri, d’intesa con il Ministero dei Beni Culturali e Ambien­tali.
Prima del 1977 la tutela delle bellezze naturali era contenuta principalmente nella legge 21 giugno 1939, n. 1497 e nel relativo regolamento di esecuzione approvato con R.D. 3 giu­gno 1940, n. 1357, che assoggettava a causa del loro notevole interesse pubblico sia le co­se immobili con cospicui caratteri di bellezza naturale o di singolarità geologica, sia le vil­le, i giardini e i parchi che non contemplati dalle leggi per la tutela delle cose di interesse ar­tistico o storico, si distinguevano per la loro non comune bellezza: tali beni si definivano ai sensi dell’art. 10 del regolamento “bellezze individuò”.
Nel fondo della Sovrintendenza relativamente al comune di Gravina ( b. 1 fasc. 16) con­serviamo la documentazione intercorrente tra la Sovrintendenza ai Monumenti della Puglia ed il comune di Gravina per una demanializzazione del suolo comunale sito sulla sponda est del burrone “La Gravina”.
La richiesta di parere favorevole avanzata dal comune alla Sovrintendenza è accompa­gnata da una relazione datata 5 gennaio 67 che evidenzia l’interesse del Consiglio comuna­le a che non vada distrutto uno dei più bei paesaggi di Gravina “... la sistemazione sulla spon­da est del torrente riveste un carattere di estrema urgenza e gravosità onde porre un freno al­lo scempio del patrimonio paesistico che sistematicamente si va effettuando, arrecando dan­ni irreparabili al paesaggio di Gravina, vista dal burrone, uno dei più belli e significativi pur­troppo poco conosciuto per la mancata valorizzazione della provincia di Bari.
I continui getti di terra di riporto hanno distrutto grotte trogloditiche di particolare interesse ...”.
Altresì protette dalla legge erano le cosiddette “bellezze d’insieme” costituite dai com­plessi di cose immobili con un caratteristico aspetto avente valore estetico e tradizionale e dalle bellezze panoramiche considerate come quadri naturali. Nella b. 1 fase. 14 del comu­ne di Gravina la Sovrintendenza in data 21 febbraio 77 elogia il Comune per aver prodotto opposizione ad una istanza avanzata per la costruzione di un albergo nell’ambito del torren­te “La Gravina”.
Il Comune così relaziona “... le peculiari caratteristiche naturali della zona e del torren­te “La Gravina” sono tali che una non regolamentata edilizia privata ha ristretto e modifica­to in più punti la suggestiva visuale dei luoghi prossimi alla collina di Botromagno e sede del­la famosa e antichissima Silvium, ricca di reperti archeologici...”.
Non si può inoltre non considerare la particolare importanza dell’art. 25 che prevedeva per il rilascio della licenza di costruzione nel territorio dei piani paesistici e delle “bellezze d’insieme”, un precedente favorevole avviso della competente Sovrintendenza. Nel fase. 3/ l b. 1 del 15 dicembre 54 l’Istituto Autonomo Case Popolari chiede alla Sovrintendenza se esistono o meno vincoli ai sensi delle leggi 1497 e 1089 sulla località “Fazzatoia” del comu­ne di Gravina, dove si intendono costruire alloggi popolari. Tale atto richiesto, avente natu­ra di autorizzazione amministrativa, era giuridicamente indipendente dalla licenza edilizia in quanto manifestazione distinta ed autonoma di un diverso potere, con presupposti e fina­lità differenti.
La legge del ‘39 stabiliva anche che la Sovrintendenza, con la collaborazione degli Uffici tecnici dei comuni interessati, doveva individuare, non solo le zone di rispetto ed il rappor­to tra aree libere fabbricabili in ciascuna delle diverse zone della località, ma anche le nor­me per i diversi tipi di costruzione, la distribuzione ed il vario allineamento dei fabbricati. Si veda a questo proposito il fase. 3/4 della b. 1 relativo alla costruzione di alloggi INA casa.
La concessione del nulla‑osta da parte della Sovrintendenza del 22 febbraio ‘63 è impor­tante perché pur non esistendo vincoli di natura monumentale o paesistica sul suolo “Grotte Solagne”, la costruzione verrebbe a trovarsi vicina al Castello e alla Monumentale chiesa di S. Maria delle Grazie. La Sovrintendenza così scrive “... questa Sovrintendenza esprime pa­rere favorevole circa la realizzazione di case per lavoratori nella località “Grotte Solagne” a condizione, però, che l’intero corpo di fabbrica venga traslato in fregio alla strada che fian­cheggia la ferrovia fino a prendere il limite dell’aiuola prevista verso la Chiesa e ciò allo sco­po di ampliare la visuale del Castello”.

APPENDICE

STRALCI DI INVENTARI
RELATIVI ALLA DOCUMENTAZIONE
DI GRAVINA

ATTI NOTARILI: Gravina, voll. 888

Decentummanibus Berardino (1485‑1524)
Carosello Paolo (1715‑1749)
Seriangeli Nicola (1512‑1517)
Brizio Salvatore (1719‑1740)
Veteris Federico (1558‑1571)
Laragione Paolo Domenico (1725‑1753)
de Giptuus Pietro (1562‑1599)
della Nave Michele Arcangelo (1725‑1776)
Mosca Leonardo Antonio (1567‑1607)
Giannatale Giuseppe Maria aa. (1741‑1778)
de Scavello Luca Antonio (1569‑ 1620)
Lettieri Maurizio (1742‑1757)
Scalesio Giacomo (1597‑1604)
Marmora Michele Nicola (1742‑1764)
Santomaso Antonio (1602‑1629)
D’Ambrosio Francesco Paolo (1747)
Mosca Michele Angelo (1603‑ 1629)
Dolé Francesco Saverio (1751‑1756)
Molinari Giacomo (1610‑1637)
Stimola Giovanni Battista (1756‑1785)
Bruni Giovanni Tommaso (1612‑1644)
D’Ambrosio Domenico Antonio (1763‑1775)
Coccio Francesco (1617‑1631)
Altimare Francesco (1769‑1796)
Scalesio Angelo (1621‑1671)
della Nave Pietro (1770‑1810)
Adabo Vito Antonio (1624‑1652)
Fighera Giuseppe Oronzo (1771‑1789)
Manzella Annibale (1626‑1682)
d’Ecclesiis Vincenzo (1777‑1810)
de Antoniis Michele (1632‑1642)
Lettieri Marcello (1787‑1809)
Molinari Giovanni Battista (1637‑1653)
Giannone Michele Arcangelo (1788‑1820)
Adabo Nicola Francesco (1629‑ 1672)
Tomacci Gerardo (1792‑1825)
Figliola Stefano (1652‑1677)
Livulpi Francesco Antonio (1797‑1808)
La Manna Vito Giorgio (1672‑1687)
Damiani Agostino (1804‑ 1844)
Santoro Nicola (1680‑1701)
Della Nave Gaetano (1805‑1844)
de Antoniis Giacomo (1688‑1702)
Ariani Domenico Angelo (1822‑1853)
Della Francia Francesco Oronzo (1688‑1719)
Pignatelli Raffaele (1830‑1875)
Brizio Francesco Antonio (1693‑1719)
Tomacci Vincenzo (1836‑1855)
Petrullo Pietro (1700‑1707)
Scacchi Domenico (1846‑1884)
de Antoniis Francesco Saverio (1703‑1737)
Caressa Francesco (1858‑1867).
Frascella Michele Nicola (1711‑1739)

Abbreviazioni

ASB Archivio di Stato di Bari
BB. Buste
Fasc. Fascicolo
N. Numero di ordine del volume
Regg. Registri

* In Vedi Gravina IV. Istituzioni, uomini e cultura, Bari 1989, pp. 267-340.

[1] L’Archivio di Stato di Bari fu tra i primi istituti nella Italia meridionale. L’istituzione trae origine, come tut­ti gli archivi dall’ex Regno di Napoli, dall’originario decreto del 22 ottobre 1812 di Gioacchino Murat e da quello Borbonico del 12 novembre 1818, che, riprendendo il primo, disponeva che in ogni provincia del re­gno venisse istituito un archivio destinato a conservare “secondo l’ordine dei tempi e delle materie, le car­te appartenenti alle antiche e nuove Giurisdizioni e a tutte le Amministrazioni comprese nel territorio del­la provincia” (art. 31). Stabiliva inoltre che il Sopraintendente generale degli archivi, di concerto con gli Intendenti delle provincie dovesse disporre “i mezzi efficaci per la ricerca e riunione negli Archivi provin­ciali di tutte le carte delle antiche Udienze ed Autorità” e anche una regola uniforme da serbarsi per la clas­sificazione e conservazione delle carte di questi nuovi Archivi” (art. 38).
Questi archivi provinciali erano messi alle dipendenze delle segreterie delle rispettive Intendenze e doveva­no essere ubicati in un locale il più vicino a queste, scelto tra gli edifici pubblici. Ove questi non esisteva­no, l’Intendente della provincia doveva proporre sollecitamente l’acquisto d’un edificio adatto all’uso cui do­veva essere destinato (art. 36). Tale decreto, intitolato “Legge organica degli Archivi del Re-gno”, dispone­ va anche che nelle provincie di terra di Lavoro, Capitanata e Bari nelle quali le corti ed i tri-bunali non risie­devano nei capoluoghi delle Intendenze venissero stabiliti degli archivi suppletori (art. 39).
Per Terra di Bari tale Archivio fu istituito, nel 1853, in Trani dove confluirono numerose carte degli uffici e tribunali che, in epoca preunitaria, avevano giurisdizione sulla intera provincia di Bari. In virtù della leg­ge 30 settembre 1963, n. 1409 l’archivio di Trani che era divenuto sotto‑sezione di A.S. ha assunto il nome di sezione di A.S.: vi si conservano tuttora e continuano ad aMuirvi gli atti notarili del distretto, gli atti giu­diziari delle magistrature del circondario e quelli degli altri uffici locali.
Bisogna attendere tuttavia 1’8 luglio perché l’archivio di Bari cominci a funzionare nella parte settentriona­le del palazzo dell’Intendenza.
Trasferita intorno al 1900 la sede centrale in via Carulli, di fronte al Distretto Militare, trovava la sistema­zione intorno agli anni 1936‑37 nei locali al piano rialzato e seminterrato del palazzo della Provincia. Alcuni fondi rimasero ancora presso i locali a piano terra della Prefettura fino al 1952‑53.
Negli anni 1976‑77 l’archivio fu trasferito in un ex laboratorio per la lavorazione delle mandorle in Via De Gasperi dove vi è rimasto fino a tutto il 1985. Dal 1986 occupa i locali di Via Pasubio (ex Standa) e i loca­li di Via C. Rosalba, disponendo di una superficie di oltre 7.000 mq.. Il materiale documentario assomma ad oltre 100.000 pezzi tra registri, buste e pacchi oltre ad un fondo di 1711 pergamene di cui la più antica ri-sa­le al 1294 (trattasi di un privilegio di Carlo II con il quale il territorio di Canne viene aggregato all’Uni-versità di Barletta). Tutto questo materiale è collocato su 15.000 metri lineari di scaffalatura metallica.
Per completare i cenni dell’Archivio di Bari bisogna aggiungere che dal 1962 funziona una sezione micro­fotografica e dal 1974 un laboratorio di restauro, legatoria e cartotecnica dotati delle più recenti attrezzatu­re; entrambi hanno sede in Via C. Rosalba.
Il fondo pergamenaceo è distinto in: Tabulario diplomatico; Pergamene Lupis; Pergamene del Monastero di S. Giacomo; Miscellanea.
[2] Mobile
[3] Cereo o riccamente lavorato
[4] Era chiamato anche governatore e durava in carica due anni. Era il capo del Tribunale ed aveva la facoltà di proporre le cause, determinare quella che si dovevano giudicare, incarcerare e scarcerare a suo arbitrio, go­vernare la provincia.
[5] ASB, Catasti, Catasto onciario di Gravina, vol. 39, f. 68.
[6] ASB, Catasti, catasto onciario di Gravina, vol. 40, f. 468r‑v.
[7] ASB, Catasti, Catasto onciario di Gravina, vol. 39, ff. 205v ‑ 206r.
[8] ASB, Catasti, catasto onciario di Gravina, vol. 39; ff 290v ‑ 292r.
[9] ASB, Catasti, Catasto onciario di Gravina, vol. 39, ff. 135v ‑ 137r.
[10] ASB, Catasti, Catasto onciario di Gravina, vol. 40, Fl. 487r ‑ 489v.
[11] ASB, Catasti, Catasto onciario di Gravina, vol. 40, ff. 599v ‑ 603v.