venerdì 14 settembre 2012
Il divenire interlocutori, certo non privilegiati, ma sempre più responsabili nel dialogo della ricerca interdisciplinare ed anche nel contraddittorio delle proposte e delle rivendicazioni, obbliga ad essere interlocutori tanto più eloquenti, quanto più in grado di precisare il proprio discorso e di rendere chiari ad altri, oltre che a se stessi, gli ambiti entro i quali essere interpellati.
Non si fa politica culturale senza tenere conto del territorio, delle sue caratteristiche essenziali come della sua potenziale richiesta di servizi.
Negli ultimi cinquant’anni (approssimativamente a partire dalla metà degli anni ’60) si è prodotto un profondo mutamento nel modo di concepire il compito che la società e le sue istituzioni hanno nei confronti delle testimonianze della civiltà passata; questo compito non è più inteso come unificazione mirante alla conservazione, ma piuttosto come mirante alla “valorizzazione” o anche, come forse meglio qualcuno si esprime, all’attiva “gestione”, e ad una gestione nella quale sia consentita ed anzi sollecitata la partecipazione della società stessa.
Connessa a questa nuova immagine del compito in questione è la stretta congiunzione dell’idea di patrimonio culturale all’idea di territorio.
L’idea di “territorio” non appare per lo più sufficientemente precisata. Il minimo che si possa dire, è che esso non ha da essere inteso come entità puramente spaziale, ma come spazio umano, spazio definito in connessione a una (relativa) unità sociale che lo occupa, che in esso ha espresso la propria maturità civile, che in esso quindi ritrova le sedimentazioni obiettive a partire dalle quali può fermamente ritrovare la propria identità storica.
In questa luce è possibile raggiungere un’idea un poco più precisa di quell’attiva gestione dei beni culturali che intende contrapporsi alla pura conservazione di essi quali “monumenti” morti del passato, esso stesso “morto”. Come accade per il “territorio” tutto, i beni culturali che ne costituirebbero elemento integrante dovrebbero costituire il tramite di un’identificazione di sé da parte del gruppo sociale: identificazione la quale non potrebbe prodursi senza consapevole assunzione del proprio “passato” e integrazione di esso nel presente vissuto e nel progetto del proprio futuro. Riscontro obiettivo della connessione sussistente tra nuova idea della “gestione” sociale dei beni culturali e idea di “territorio” è offerto dalla constatazione che, di fatto, il dibattito degli ultimi anni sui beni culturali appare coincidere con il periodo dell’attuazione dell’istituto regionale, e più in generale con un periodo di vivace ripresa d’iniziativa da parte dei Comuni e degli istituti di partecipazione politica a livello periferico.
La ricerca storica si basa principalmente su documenti di archivi su cui desidero fare alcune brevi considerazioni.
La maggior parte dei documenti archivistici presenta quell’immagine che il potere ha scelto di conservare di se stesso per il futuro, un’immagine un po’ costruita che il ricercatore deve considerare come tale per poi mediare le due culture, quella presente e quella passata, in un’analisi storica quanto più corretta possibile.
La dottrina archivistica ricorda che è necessario accostarsi alle fonti archivistiche con metodo, cercando un rapporto non con il singolo documento estrapolato ma con la totalità dei documenti che costituiscono, in un’unità inscindibile, l’archivio di un Ente o di un Istituto.
Pertanto si rileva propedeutica a una ricerca documentaria più accurata la conoscenza delle istituzioni e delle magistrature di una determinata epoca, conoscenza indispensabile per lo studioso che voglia più agevolmente risalire all’organizzazione politica, amministrativa e giudiziaria di un territorio e intenda, attraverso tali segmenti, recuperare una dimensione storica il più possibile vicina alla realtà.
Oggi, attraverso un’analisi più approfondita di certe strutture, quali le strutture demografiche, le strutture familiari, le strutture patrimoniali, è possibile ricomporre le attività vitali di una popolazione del passato, sempre che sia ben indirizzato il rapporto con il documento e con l’archivio.
Tutto è oggetto di storia con pari dignità: i documenti fiscali dei governi, i mercuriali o liste dei prezzi ufficiali, i registri dei dazi, i testamenti, i contratti, i registri dello Stato Civile o della Leva; ogni serie omogenea di dati, se adeguatamente interrogata può contribuire a ricreare uno spessore storico
attraverso le sue risultanti economiche e sociali, e può inoltre meglio documentare e chiarire quelle dinamiche interne che hanno consentito lo strutturarsi delle classi sociali, del potere pubblico, delle rivolte sociali.
Il nuovo ricercatore quindi, favorito dai più recenti parametri storiografici, può rivolgere a quei documenti, che furono scritti e conservati per tutto un altro fine, delle nuove domande, sicuro di poterne ricavare elementi utili per rischiarare quelle tematiche sempre escluse dalla storia.
Ed ecco che la storia locale, non appesantita dalle abusate etichette proprie della tradizione storica nazionale, può offrire l’occasione per verificare l’opportunità di tali proposte metodologiche. Infatti, la formulazione di queste nuove domande rivolte a una documentazione proveniente da un ambito circoscritto consente l’elaborazione di una storia che, abbandonato il momento puramente erudito e celebrativo e la logica del localismo occasionale, si è trasformata da storia “periferica” o “marginale” in storia “totale”, proprio grazie alle molteplici coordinate che emergono dai rinnovati itinerari documentari.
In questa fase di graduale aggiornamento l’archivio si propone come guida privilegiata per una migliore consultazione e selezione dei percorsi culturali da intraprendere, percorsi che non intendono convogliare verso conclusioni predeterminate, ma piuttosto indicare degli orizzonti sempre problematici e degli itinerari aperti ad ogni possibile indagine.
La logica della ricerca, già di per sé formativa per il ricercatore, richiede adeguati strumenti e di nuove tecniche esplorative.
La ricerca e la relativa pubblicazione LA CHIESA DI S. DOMENICO, IL CONVENTO DEI PADRI DOMENICANI E LA CONFRATERNITA DEL SS. ROSARIO DI ALTAMURA. Storia, arte, documenti, restauri, a cura di Damiana Santoro, prefazione di Gerardo Cioffari (Bari, Adda editore, 2011), con saggi di Tommaso Berloco, Damiana Santoro, Rosanna D’Angella, Mariapia Pontrelli, Giuseppe Dibenedetto, Giuditta Valente,Vincenzo Laborante, si pone in quest’ottica.
Tommaso Berloco nel suo saggio(Storia della. chiesa di s. domenico, del convento dei domenicani e della confraternita del ss. Rosario in Altamura dalle origini ai giorni nostri,pp.16-202, ) da cui prende il titolo il volume che oggi presentiamo si occupa della piazza, degli edifici civili e religiosi a sud della città. La storia della principale piazza della città moderna (piazza Zanardelli) è seguita in tutto il suo sviluppo con la descrizione degli edifici che la circondano. Per la storia della chiesa e il convento dei Domenicani, anche se mancano quasi tutti i documenti, il Berloco si basa su diverse citazioni e documenti indiretti. Attraverso la documentazione conservata presso l’archivio capitolare di Altamura, il Berloco percorre i rapporti con la città e gli altri conventi nel secolo XVII.
Nel 1809 il Convento di s. Domenico fu soppresso in seguito al relativo decreto di Giacchino Murat. In seguito a tale soppressione i beni passarono al Demanio e da questo nel 1824 la chiesa era ceduta alla Confraternita del Rosario e solo nel 1851 i locali dell’ex convento saranno ceduti alla curia vescovile per diventare sede di un seminario. Il Berloco affronta anche le vicende successive della chiesa e dell’ex convento. I terreni seminativi, i pascoli e la masseria finiranno per passare in possesso di privati.
Con il decreto del 7 agosto 1809 emanato dal Governo francese, come già detto prima, il monastero dei Domenicani di Altamura era soppresso e le carte confluivano, tra l’altro, negli archivi dell’Intendenza di Terra di Bari; d’altro canto, all’indomani delle varie vicende politiche e dei vari interventi di riorganizzazione amministrativa statale,[1] la confraternita del SS. Rosario di Altamura si trovò nelle condizioni di dover, in qualche modo, pur dopo una convivenza non sempre serena, raccogliere l’eredità del monastero stesso. . Naturalmente, chiunque desideri affrontare, conoscere e approfondire le tematiche inerenti la storia di chiese, conventi e istituzioni laicali di Altamura nei vari aspetti sociali, economici, culturali, religiosi, artistici e la loro incidenza sulla vita della comunità locale, non può prescindere dall’opera del fervido e appassionato cultore e studioso Tommaso Berloco; in particolare, per quanto riguarda il convento e la chiesa dei Domenicani e la confraternita del SS. Rosario, punto di riferimento sono quattro suoi saggi,[2] due dei quali presentati in questo volume in una nuova forma rielaborata.
Damiana Santoro, nel suo saggio dal titolo Documenti inediti per la storia del convento di S. Rocco e ella confraternita del SS. Rosario in Altamura ( sec. XVI-XVIII),pp.203-412, cerca di reperire nuovi dati e per approfondire ulteriori indagini intorno alla nascita e allo sviluppo del convento e della confraternita e tentare così di rintracciare gli atti prodotti da quelle che furono, per diversi secoli, due importanti realtà all’interno del tessuto sociale ed economico della città di Altamura.
La Santoro ha rivolto, con grande competenza, l’attenzione al cospicuo fondo dei protocolli notarili conservati presso l’Archivio di Stato di Bari e ha sviluppato l’indagine, con ottimi risultati, lungo un arco cronologico compreso tra la fine del xvi e la metà del xviii secolo. Per quanto riguarda il convento la documentazione relativa all’ultimo periodo prima della soppressione è oggetto di un altro saggio pubblicato in questo volume, (tommaso berloco, rosanna d’angella, “Documenti inediti dei Domenicani di Altamura (1785-1809)), mentre per la confraternita del SS. Rosario, la documentazione custodita nel proprio archivio, seppure con alcune lacune, parte dal 1712 con il Regestum.[3]
L’indagine di Damiana Santoro è stata condotta in maniera sistematica e scrupolosa su circa 450 protocolli dei notai roganti in Altamura nel periodo individuato, cominciando da Giovanni Vitale, del quale si conserva un solo volume, relativo agli anni 1574-1575, fino ai notai attivi intorno agli inizi della seconda metà del xviii secolo,[4] prestando una particolare attenzione all’esame di quanti per appartenenza familiare, per tradizione, per vicinanza alla famiglia domenicana o ai componenti della confraternita del SS. Rosario sembravano offrire una certa ricchezza di documentazione.
La Santoro ha proceduto con lo spoglio degli atti, selezionando quelli riguardanti la formazione del patrimonio immobiliare urbano e rurale, attraverso i numerosi acquisti e le donazioni, le permute e le vendite di beni poco redditizi, gli investimenti nella fabbrica della nuova chiesa e le commissioni di opere d’arte per l’abbellimento di questa, le donazioni di beni mobili, tralasciando la documentazione di natura squisitamente finanziaria, soprattutto relativa all’intensa attività creditizia svolta dai monaci di S. Domenico. Del resto erano proprio i consistenti lasciti in moneta liquida a determinare la necessità di investire i capitali, onde consentire al convento di assicurarsi dei cespiti per ottemperare agli obblighi assunti con l’accettazione delle donazioni stesse e celebrare «mundo durante» le messe in suffragio;[5] pertanto, sono stati presi in considerazione solo quei contratti di censo bollare in cui emergono circostanze rilevanti ai fini degli obiettivi della ricerca, come per esempio, i casi in cui il bene immobile ipotecato è utilizzato per l’estinzione del debito e confluisce nel patrimonio del monastero.
Per la confraternita, analogamente, sono stati individuati gli atti riguardanti l’acquisto degli edifici urbani e del patrimonio fondiario, su cui sembrano concentrarsi gli investimenti, sempre abbastanza rilevanti e possibili anche grazie al sostegno, non solo spirituale, offerto dai monaci, e le commissioni per la costruzione di edifici e le realizzazioni di opere artistiche.
È emerso un terzo filone d’indagine intorno alla questione dei travagliati rapporti tra monastero e confraternita, culminati in episodi di forti contrasti e liti, che videro coinvolti anche esponenti del governo dell’Università o comuni cittadini schierati con l’uno o con l’altra, secondo i legami e i contatti intercorrenti.
I contenuti dei documenti selezionati sono stati elaborati in forma di schede, comprendenti la trascrizione di ampie parti solo per gli atti particolarmente significativi ai fini della ricerca. Per gli altri documenti, tenuto conto dell’economia e delle finalità della presente pubblicazione, la Santoro ha preferito fare una presentazione sintetica, contenente solo le informazioni ritenute essenziali. A corredo delle schede, presentate in un unico elenco organizzato secondo l’ordine cronologico, ha ritenuto utile affiancare un indice tematico che, concepito come strumento di guida alla consultazione delle schede, permette un ulteriore livello di lettura della mole di informazioni offerteci.
Dagli atti riguardanti compravendite d’immobili in territorio urbano la Santoro ha evidenziato innanzitutto la tendenza da parte dei monaci di S. Domenico ad acquisire proprietà nelle adiacenze del monastero alla contrada di Porta Matera, nel planitio di S. Marco. Grazie alla minuziosa registrazione delle proprietà confinanti con un giardino circondato di muri in contrada Porta Matera ed a quella relativa ad un suolo posto in vendita dallo stesso monastero si disegna la posizione della taverna del convento dei Domenicani. In alcuni contratti emergono spaccati di vita, racconti di miseria e povertà, in cui la necessità costringe a disfarsi di beni immobili per nutrire il proprio figlio neonato rimasto orfano della madre.
Negli atti riguardanti i fondi rustici, sono esplicitate le denominazioni delle contrade e forniti ragguagli sui confinanti, oltre che sulla natura dei terreni (seminatoriale, pascolatoriale o vigna); sono descritte le eventuali costruzioni rurali presenti: in genere i parchi sono delimitati da muri di pietre a secco e inglobano iazzi, trulli, cortaglie, piscine, pozzi d’acqua. In alcuni casi il paesaggio è rappresentato con una tale vivacità che sembra materializzarsi, come accade per esempio nella descrizione di alcuni parchi nella contrada del Lago alle pendici meridionali della collina, connotata con una notevole ricchezza di particolari.
La descrizione completa delle proprietà rurali del monastero di S. Rocco è nella Platea generalis redatta dall’agrimensore Berardino Ferraro da Capracotta per il reverendo padre lettore Giovanni Stella nel 1745.[6] Il volume cartaceo, si compone di 29 carte, con tavole a colori riproducenti i vari territori di proprietà, una descrizione schematica comprendente la tipologia dei terreni, l’indicazione della contrada, gli eventuali edifici e strutture rurali, il dettaglio di eventuali coltivazioni di rilievo e l’elenco dei confinanti. Di particolare interesse sono le tavole che si riferiscono alla grande masseria che si estendeva fino alle pendici meridionali della collina di Altamura e comprendeva iazzi, grottaglie con lamie, sette piscine, alberi fruttiferi, giardino «per uso di massaria», pagliai, per un’estensione di oltre 290 tomoli.Buona parte del patrimonio immobiliare del monastero di S. Rocco si era formato grazie alle donazioni di diversa entità da parte dei devoti più o meno abbienti. Di rilievo le donazioni di «beni stabili e istromentari» da parte della nobildonna Marianna Santoro, la quale destina al convento anche «mettà dell’osteria ... in contrada della Piazza».
Di sicuro interesse il riferimento alla vivacità economica e commerciale della città di Altamura e in particolare all’intensa presenza di forestieri, che venivano ad approvvigionarsi di sale dal fondaco regio, contenuto nell’atto relativo all’affitto delle contigue osterie in contrada della Piazza, di proprietà del convento e della signora Teodosia Santoro. L’importo dell’affitto, da integrare con riparazioni sul bene e prestazioni domestiche, è maggiorato, proprio in considerazione della favorevolissima posizione delle osterie, nel luogo ove si svolgeva la «renomatissima e celeberrima fiera». Si tratta ovviamente della fiera che si celebrava dal 5 al 13 agosto, a partire almeno dal 1584,[7] data in cui è già molto frequentata, come lo era quella che si svolgeva nel mese di aprile, tanto che spesso il governo cittadino era costretto ad anticiparne l’inizio.[8]
Sono pure molto particolari le donazioni di libri, come i seicento volumi assegnati al monastero di S. Rocco dal canonico dottor Francesco Ciccarella, di vari autori, di argomenti confacenti alla biblioteca monastica (scheda 128); il donatore aveva prescritto che i testi dovessero conservarsi sempre presso il monastero, senza possibilità di alienazione: non sappiamo quale percorso abbiano seguito, all’indomani della soppressione del monastero di Altamura, ma sarebbe sicuramente facile riconoscere questi volumi, che secondo la volontà dello stesso donatore dovevano recare l’iscrizione ‘Ciccarella’ sul frontespizio.In una donazione di quattrocento pecore con facoltà di vendere gli animali, tra le clausole è presente l’obbligo di utilizzare parte dei proventi per acquistare libri per lo studio dei novizi dimoranti nel monastero; in caso d’inosservanza, capitale e interessi derivanti dalla vendita sarebbero dovuto essere ceduti al monastero domenicano di Gravina, con lo stesso obbligo e la stessa eventuale sanzione, a favore del monastero altamurano e così all’infinito, fino all’esecuzione delle disposizioni testamentarie.
Dalla vendita di alcuni parchi ricevuti in donazione da Innocenzio Bove e Prudenzia de Martino, i monaci incamerano denaro da impiegare nell’intrapresa costruzione dell’ampliamento seicentesco del convento, preludio di una ben più impegnativa impresa testimoniata da una serie di atti, rogati nella prima metà del ’700, che illustrano diffusamente la vicenda della ristrutturazione del complesso conventuale e soprattutto della chiesa, trasformata nelle imponenti forme attuali.
Si possono seguire i lavori per la realizzazione di un progetto ambizioso che si avvia con la cerimonia della posa della prima pietra il 22 gennaio 1716: il notaio Giovanni Antonio Loizzo venne chiamato a redigere un atto pubblico, per conferire maggiore solennità all’evento, che vide «concorrenza di gran popolo», accorso ad ammirare i canonici ornati con «pelliccie ed insegne canonicali» . I lavori, affidati a mastro Nunzio Angelo Giannuzzi di Altamura e ai mastri Domenico Galassa e Domenico Marinari della città di Andria, consistevano non in una costruzione ex novo, bensì in una ristrutturazione e ampliamento della chiesa e del convento, come si evincerebbe dalla circostanza, raccontata dal notaio, secondo cui gli officianti escono dalla chiesa per poi rientrarvi alla fine della cerimonia; quindi in questo momento l’edificio della vecchia chiesa era ancora praticabile e fu probabilmente tenuto in efficienza fino al completamento della nuova fabbrica secondo le previsioni dell’importante progetto, mai portato a termine a causa di imprevisti e ristrettezze economiche che assilleranno la vita del convento fino oltre la metà del Settecento. L’acqua benedetta fu aspersa «in faccia al pariete di detta chiesa», (ulteriore elemento che corrobora l’ipotesi suddetta), e presumibilmente gli officianti, calatisi «nel fossato di detti fondamenti al pontone frontespitio il portone di S. Antonio», collocarono la «lapide nella quale appariva impressa il sagrato segno della Croce», verosimilmente proprio in corrispondenza della lapide, recante il cristogramma ihs e la data 1716, oggi ben visibile nei pressi dell’angolo settentrionale della chiesa, quasi a voler segnalare il limite tra la vecchia e la nuova facciata .
Trascorsi dodici anni dalla posa della prima pietra, nel 1728, nella nuova fabbrica si evidenziarono gravi problemi strutturali, determinati dall’imperizia «di certi mastri fabricatori della città di Andria» (nell’atto si evita persino di nominarli, ma si tratta come abbiamo visto di Domenico Galassa e Domenico Marinari) i quali furono destituiti, mentre rimase confermata la fiducia nell’altamurano Nunzio Angelo Giannuzzi, cui si affiancarono oltre a suo figlio Nicolò, i mastri muratori, concittadini, Paolo Ruggiero e Angelo Scalera. Nell’occasione fu redatto un atto pubblico, attraverso il quale apprendiamo in dettaglio quali problemi si erano prodotti sull’edificio ancora in costruzione. Possiamo renderci pienamente conto della sciagurata impresa dei mastri fabricatori andriesi, leggendo l’elenco delle varie voci di spesa per la demolizione delle parti malfatte e per il ripristino realizzato. Le cose sembrano evolvere al meglio nel decennio successivo, considerati i consistenti investimenti in beni stabili e le cospicue donazioni; tuttavia nella continua riorganizzaione del patrimonio immobiliare, tra acquisti, permute e donazioni, «tenendo precisa il bisogno di proseguire l’edificio della ... chiesa e ... monistero» si procede con la vendita di una casa soprana e sottana, articolata in vari ambienti, mentre per l’«erezzione d’un magazeno» all’interno del convento, si delibera di vendere un «picciolo recinto di suolo», alienato a favore della contigua cappella della SS.ma Annunziata.
Nel 1740 sembra sopraggiungere una grave, forse momentanea, crisi di liquidità che costringe i monaci a contrarre un censo per un cospicuo capitale con il duca Massenzio Martini di Sanarica, onde poter proseguire e terminare l’erezione della chiesa, «gravamente soggettata a patimenti dell’aria, di pioggie, nevi ed altro, per trovarsi scoverta» e per non «far marcire le già erette fabriche». Per perorare la richiesta formulata e ottenere l’autorizzazione dalla ‘Sacra congregazione dei vescovi e regolari’ a contrarre il censo, furono raccolte le testimonianze del massaro e del sottomassaro della «massaria di campo» del convento, grazie alle quali si appurò che le ristrettezze economiche si erano determinate a causa dell’andamento negativo dei raccolti, nelle annate avverse e a causa dell’andamento sfavorevole dei prezzi sui mercati, che si deprimevano per l’eccesso di prodotto disponibile, nelle annate propizie, situazione che aveva riguardato, in quell’ultimo decennio, la maggior parte dei «padroni di massaria» della città.
Per certificare l’urgenza degli interventi edilizi necessitanti alla messa in sicurezza della fabbrica già realizzata e l’impegno economico richiesto, ci si avvalse delle dichiarazioni del «publico tavolario mastro fabricatore» Donato Giannuzzi[9] e del «publico fabricatore» Vito Caputi della città di Matera, ambedue impegnati nel cantiere di S. Domenico, che valutavano «per materiale e maestranza» nonché per il trasporto una spesa di almeno 900 ducati. La testimonianza fornita da Donato Giannuzzi ci mette nelle condizioni di raffigurarci l’opera in fieri, con la descrizione dello stato dei lavori e delle parti già innalzate e conferma l’ipotesi dell’ininterrotta funzionalità dell’edificio durante il lungo periodo di ristrutturazione. È raccolta anche la dichiarazione di due giudici ai contratti, Giuseppe Continisio e Nicola lo Russo, che attestano quale fosse il tasso più basso applicato ai contratti di censo stipulati in quel periodo ad Altamura, al quale i monaci avrebbero dovuto attenersi.
Negli stessi anni in cui il monastero si trova costretto a contrarre il censo su un capitale piuttosto consistente, è contemporaneamente creditore nei confronti dell’Università di Altamura, per cui designa Francesco Trilloco quale procuratore in Napoli, per l’esazione di un credito di 1000 ducati.
Quando furono completati i lavori edili della nuova fabbrica «modernamente fatta elegante di strottura», i monaci dovettero occuparsi dell’allestimento degli interni della chiesa, dove erano già collocati «altri due altari lavorati in marmo»;[10] si avvalsero per questo delle conoscenze e dei contatti della famiglia domenicana a Napoli,[11] ma soprattutto tennero conto delle opere e dei modelli già realizzati nella città di Altamura e nella stessa chiesa di S. Domenico, deliberando di conferire l’incarico allo scultore marmoraro napoletano Crescenzio Trinchese, tra i più rinomati del suo tempo.[12]
Nel contratto è contenuta una dettagliata descrizione della tipologia dei marmi da utilizzare, “secondo il disegno”; risaltano, nel tripudio di colori, le parti scultorie in «marmo bianchissimo» della scuola di Domenico Antonio Bottigliere[13] o di Francesco Pagano.[14]
Fu stabilito che Trinchese avrebbe dovuto consegnare l’opera per il Natale del 1752 e avrebbe percepito 1000 ducati. In realtà, erano nel frattempo sorte delle contese e il marmoraro aveva «istituito giudizio prima con atto protestativo in ... Curia arcipretale e successivamente nella Nunziatura apostolica». La causa era poi sospesa e il 29 giugno 1754 si stipulava un nuovo contratto, con un nuovo progetto ma per un importo inferiore, da definirsi con l’ausilio di apposite valutazioni di «due periti artefici di simili lavori» . Il modello essemplare era, nel caso specifico, costituito dal capo altare della chiesa dei Domenicani di Martina Franca «che sta convenuto farsi dall’artefice marmoraro signor Francesco Raguzzini di Napoli e con tutte le circostanze di pietre e lavori, che sono espressati nell’istrumento che fu stipulato da esso reverendo padre maestro exprovinciale fra Giacomo Tursi». L’altare di Raguzzini era costato 520 ducati, incluse due acquasantiere, non previste per la chiesa di Altamura, per la quale si stabiliva pure che l’altare dovesse essere di 21 palmi invece che 22 come a Martina Franca «con questa condizione, però, che per la restrizione del menzionato palmo non s’intende ristretto il corpo di detto altare».
Trascorsi altri due anni, il 9 luglio 1756 i monaci di S. Domenico hanno l’ennesimo ripensamento e decidono di ripigliare il progetto iniziale, perché più confacente alle «fabriche moderne» della chiesa «riuscita ... di nobil struttura» (scheda 218); su questa decisione sembra pesare il condizionamento della presenza dei due eleganti altari di marmo della Vergine SS. del Rosario e del glorioso patriarca S. Domenico. Per alcuni particolari furono introdotte delle varianti in corso d’opera, ma l’opera alla fine sembra rispecchiare in linea di massima il disegno approvato nel giugno 1752.
Condotte a termine queste importanti realizzazioni, una serie di atti relativi a procure per stipulare contratti di censo su cospicui capitali suggerisce una condizione critica del convento, determinata probabilmente dall’andamento delle industrie, in una fase di crisi del settore agrario e in particolare cerealicolo. Per la gestione delle varie attività e necessità del convento, i monaci avevano potuto fare affidamento sulle cospicue rendite assicurate dai loro possedimenti, non avevano però potuto prevedere avversità meteorologiche e carestie, per cui nel 1761 si trovavano costretti a chiedere l’autorizzazione alla ‘Sacra congregazione dei vescovi e regolari’ a contrarre ancora un censo per un ingente capitale, in maniera da poter completare al più presto le volte del nuovo dormitorio e scongiurare così il rischio di deperimento della struttura e allo stesso tempo provvedere a varie altre necessità della famiglia (scheda 226).
Per la storia della confraternita del SS. Rosario emerge una prima traccia a 25 anni dalla costituzione, quando i confratelli reputano di dover commissionare un nuovo stendardo. L’informazione ci perviene dall’atto rogato il 4 febbraio 1599 dal notaio Filippo Plantamura. Testimoni della transazione tra i confratelli e Cesare Gattino di Matera sono il regio giudice Gregorio Clemente, Pompeo Filo, Giovanni Vincenzo Giordano, Giovanni Battista de Simone, Camillo de Natale e il chierico Ranuccio Plantamuro di Altamura, mentre per la confraternita intervengono il priore Giulio Giordano, Donato Angelo Sabina, Pompilio Festina, Virgilio Malerba, Felice Antonio de Laborante, Prospero de Notaro Petro, Valerio de la Centra. Nel contratto, redatto «in vulgari sermone pro maiori inteligentia», si 8stabilisce che Cesare Gattino dovrà dipingere uno stendardo con l’immagine della Madonna con il SS. Rosario in mano. Egli dovrà utilizzare colori fini, cioè non intensi: cenere d’azzurro, lacca (rosso), giallo di lino di Fiandra, verde e tutti gli altri colori occorrenti nella composizione, rigorosamente fini; completerà il suo lavoro con il friso di oro napoletano. Spetterà al priore e agli amministratori provvedere a fornire l’armesino, ossia il tessuto di seta di colore rosso, la frangia e il bastone. A Cesare si chiede di eseguire il lavoro con la «qualità et perfettione» del vecchio stendardo, perché qualora il lavoro finale avesse deluso le aspettative sarebbe stato lecito da parte del priore e dei confratelli rifiutarlo, pretendendo il rimborso delle spese occorse per l’armesino. La consegna del manufatto era fissata entro un mese dalla stipula del contratto, con pagamento contestuale del prezzo di 60 ducati.
Agli inizi del xvii secolo comincia a costituirsi il patrimonio immobiliare della confraternita, con l’acquisto del primo nucleo di quella che diventerà la masseria denominata Gargaro o Gargano . I confratelli, rappresentati dal priore magistro Giulio Cornelio, Lorito de Spoto e Gaspare Manerba, delegati dagli altri ufficiali della confraternita alla stipula del contratto, acquistano da Cornelia Castelli vedova di Marsiliano Continisio e da sua figlia, 137 tomoli di parchi, delimitati con muri di pietre a secco («ad rusticum»), comprendenti due ovili, due case di pietra «ad rusticum fabricatis, dictis trullis», due minasciuli,[15] due pozzi sorgivi, posti «intus paludem di Pulisciazza». Per l’acquisto dei beni descritti, si convenne la cifra di 700 ducati; il pagamento sarebbe stato corrisposto in maniera dilazionata, sebbene le scadenze risultino non sempre rispettate. Cornelia Castelli utilizza il denaro appena pervenutole dalla confraternita per l’acquisto di censi: è evidente che chi deteneva una certa liquidità finanziaria non perdeva occasione di metterla a frutto.
La confraternita può quindi dedicarsi alla gestione della sua prima azienda agricola, che già ai primi del ’600, così come c’è descritta nei documenti, appare piuttosto articolata e nel suo insieme ricca di caratteristiche che possono renderla molto produttiva, con locali destinati ad accogliere i lavoratori, ambienti e recinti per gli animali, strutture di servizio, che la trasformarono in un’opportunità di lavoro e benessere per se stessi e per i salariati. Nel novero degli interventi miranti al potenziamento dell’azienda agricola si può collocare la costruzione delle piscine, la più antica delle quali è realizzata, sfruttando presumibilmente uno dei minasciuli presenti, certamente prima del 1674.
Tuttavia i primi anni della storia di quest’attività imprenditoriale furono probabilmente un po’ difficili e delusero le aspettative dei confratelli visto che, per quanto si induce dai dati disponibili, essi si trovarono nelle condizioni di non poter estinguere il debito con la famiglia Castelli, secondo i termini dell’atto del 1614. Tutta la questione è ripresa e riassunta in una transazione stipulata il 6 giugno 1620 tra la confraternita e il suddiacono Giovanni Antonio Continisio per un totale residuo di 750 ducati da corrispondersi in rate da 250 nell’agosto del 1620, del 1621 e del 1622.
Sulla lunga e travagliata vicenda dell’acquisto della masseria Gargaro s’innestano i rapporti tra la confraternita e il monastero, non sempre idilliaci. Nel concordato stipulato il 3 marzo 1630 per andare incontro alle necessità della confraternita, non ancora in grado, in quel momento, di onorare l’impegno con la famiglia di Cornelia Castelli, i frati decidevano di farsi carico in qualche modo delle difficoltà economiche della confraternita e concedevano di sollevarla di parte degli oneri dovuti loro per quattro anni, a cominciare dall’anno in corso; per cui i confratelli avrebbero versato 12 ducati e mezzo al monastero, e avrebbero utilizzato i 70 ducati abbonati per versare il dovuto a Cornelia Castelli. Qualora i confratelli non avessero corrisposto la somma alla signora, ne sarebbero rimasti debitori con il convento e comunque si precisava che, superata l’emergenza, la confraternita avrebbe dovuto corrispondere normalmente ogni anno i 30 ducati e lo staio d’olio, secondo quanto precedentemente previsto. Inoltre, si concordava che ambedue le parti avrebbero dovuto recedere dalle liti mosse dagli uni agli altri, non potendo pretendere altro che quanto riportato nel rinnovato patto.
Comunque, i bilanci della confraternita consentivano investimenti importanti; per esempio, nel 1632 essa acquista dai fratelli Festina 35 tomoli di parchi in contrada «Gargaro et Pulisciazzo iuxta parcos dicti confraternitatis emptos a Cornelia Castello». Il saldo del pagamento di 204 ducati e 25 grana avverrà in circostanze piuttosto particolari: nella nota marginale datata 11 settembre 1633, si dichiara che i fratelli Festina ricevono dal tesoriere della confraternita Donato de Sardone 101 ducati e 12 grana e mezzo di moneta corrente argentea, somma che viene contestualmente girata dai fratelli Festina a Giovanni Antonio Perillo, dal quale essi stessi avevano in quello stesso 28 agosto 1632 comprato una masseria in contrada Guascio Gualtiero.
A metà del xvii secolo, si rileva un ampliamento delle attività della confraternita; probabilmente a causa dell’incremento del numero dei capi di bestiame gestiti (in proprietà o in fida), si rende necessaria una maggiore disponibilità di pascolo. I confratelli ottengono in affitto dal Capitolo della Maggior chiesa, circa 260 tomoli di parchi delimitati da muri, con una casa, o lamia, delle grotte, una piscina, un ovile o iazzo «spenato sive ricciato»[16] ubicati in «loco dicto et vocato a vulgo li Greciulli», nei pressi delle proprietà della famiglia Natale . Due anni dopo si considerò invece opportuno allargare i propri possedimenti nella masseria di contrada Gargaro, con l’acquisto di un’area di circa 133 tomoli e mezzo di parchi recintati da muri a secco, posta nei pressi della strada pubblica, «una cum nova costructione sive recinta predittorum parcorum, trullo, cortaleis, minasciulis» nella contrada detta La confina di Gravina. Il pagamento fu corrisposto parte in denaro e parte in natura con 200 pecore «diversarum lanarum» del valore di 200 ducati, nonché con 58 pensas di lana bianca lunga del valore di altri 100 ducati.
Ad accrescere le pertinenze della masseria in contrada Gargaro concorrono altri 44 tomoli di parchi, acquistati nel 1650 da Gisaria Continisio e pagati parte in denaro e parte in natura con 100 pecore magnas, da prelevare dalla propria «massaria ovium» e due anni dopo, nella vicina contrada di Grotta Guarino, 35 tomoli e mezzo stoppello di parchi acquistati dal chierico Giuseppe Carello. Alla fine del xvii secolo la contrada ove si trova ubicata la grande masseria della confraternita, comincia ad assumere la denominazione di SS. Rosario .
La solidità economica raggiunta nel ’700, consente l’acquisto del ben più importante fabbricato urbano a Porta Bari. L’atto di acquisto, concluso, in forma di alberano il 10 giugno dell’anno 1743, viene redatto in forma pubblica il 17 marzo 1744.Don Giacomo Mercadante vende la casa composta di tre «abitazioni soprane», su una delle quali si riserva l’usufrutto di abitazione per lo zio d. Cataldo Corcoli, fratello della defunta Lucrezia Corcoli sua madre; vi erano poi tre sottani «l’uno dentro l’altro». Il prezzo di vendita fu fissato in base alla stima di mastro Donato Giannuzzi, nominato da d. Giacomo e da mastro Angelo Scalera, perito prescelto dalla confraternita, considerando la servitù della porta nell’atrio del portone, per consentire l’accesso allo zio Cataldo. All’atto si allega la stima sottoscritta dai due periti, in cui si specifica che due sottani sono adibiti a magazzeno, l’altro a stalla; inoltre, la distinta riporta la valutazione puntuale e analitica con tipologie e materiali dei vari elementi che compongono le case. Alla morte di Cataldo, la confraternita entra in possesso anche della «camera suprana» riservata e il venditore è autorizzato a farsi consegnare la parte dell’importo della vendita, custodita cautelativamente da d. Domenico Totti.
Negli anni in cui gli altamurani coltivavano l’idea di elevare l’arcipretura a vescovado, anche per porre fine alle questioni giurisdizionali con i vescovi vicini, fu necessario dotare di congrue rendite la futura Mensa vescovile e a tale scopo persino l’Università di Altamura aveva destinato parte delle sue terre demaniali. Molti privati cittadini offrirono il proprio contributo e alcune istituzioni confraternali altamurane si obbligarono ad una contribuzione annuale; tra queste la confraternita del SS. Rosario che assicurò un versamento annuale di 100 ducati «pigliato che haverà il possesso il futuro vescovo in questa città et chiesa» e inoltre, nel caso in cui fosse stata impossibilitata alla corresponsione del contributo in contanti, si impegnava a riconoscere un interesse del 2% a beneficio del vescovato.
Nelle aziende agricole la confraternita concentra le proprie energie: l’ampliamento della masseria di Gargaro procede parallelamente al potenziamento di quella di Ceraso. Tuttora ben conservata, nonostante i decenni di abbandono, è la lamia in pietra, la cui costruzione fu commissionata dai confratelli del SS. Rosario nel 1698, come documenta anche l’incisione posta sull’architrave della porta d’accesso ; la realizzarono dei mastri di Ruvo, secondo le dimensioni indicate nel rogito. In territorio di Ruvo sarebbe stata prodotta la calce, nella calcara in località la Ferrata: se ne acquistavano mille pese da pagare allo stesso prezzo concordato con «la Madonna di Altamura». Sul prezzo complessivo di 30 ducati di rame il tesoriere ne sborsa 10 come congruo anticipo per la calce.
A proposito delle alterne vicende dei rapporti tra convento e confraternita, fatti di momenti di grande sintonia, in cui si concludono affari congiunti e episodi di estrema tensione, si segnalano diversi documenti che sembrano delineare un’incrinatura irreparabile, sviluppatasi intorno a varie questioni. L’11 ottobre 1691 a richiesta del priore e del tesoriere della confraternita, il regio giudice ai contratti, il notaio e i testimoni si recano presso il convento «per presentare per publico atto ... una lettera del ... reggente Moles, delegato alla Real Giurisditione», relativa a lite e controversia intercorrente con i confratelli, problemi rappresentati dagli stessi padri domenicani in due loro «diffusissime lettere». Moles diffidava il monastero, ordinando di «astenersi ... dal continuare l’istanza nella Corte arcivescovale et far revocare il monitorio et le censure fuor fulminate», in attesa che «se reintegra la Real Giurisditione», presso la quale era stato presentato ricorso da parte dei monaci sin dal 24 luglio 1688. Il priore, Tommaso Valente, rifiutò di ricevere la lettera, sostenendo di non riconoscere il reggente delegato per suo giudice competente e di non essere mai comparso presso tribunali della Real Giurisditione. Quel che ne scaturì fu un acceso alterco, con istrioniche incursioni degli altri frati, adunati dal padre priore che furente, si scagliava contro il priore della confraternita, agguantandolo ed ingiungendogli: «Sfratta da qua!».
La ricognizione sui protocolli notarili di Altamura effettuata con grande perizia dalla Santoro ha permesso di individuare anche contratti relativi a commissioni di opere artistiche settecentesche pertinenti ad altre chiese di Altamura, nonché delle vicine città di Gravina e Santeramo; pur esulando dai limiti della ricerca, la Santoro ha ritenuto opportuno tener conto di questi documenti, per integrare le informazioni già raccolte e proporli in questa sede, poiché potrebbero offrire dati interessanti e rivelarsi di qualche utilità nell’ambito degli studi sul Barocco di Terra di Bari.
Infine, nel corso della ricerca svolta sui documenti notarili, la Santoro si è imbattutta in un’interessante curiosità, che offre l’occasione di avere uno sguardo sulla città settecentesca, vista da un anonimo disegnatore locale; infatti, l’incipit del protocollo del notaio Giovanni Antonio Loizzo relativo all’anno 1727,[17] reca una delle più antiche rappresentazioni di S. Irene in veste di protettrice della città di Altamura . In quegli anni la città era stata colpita ripetutamente dalla caduta di fulmini, che avevano provocato danni a molti edifici e addirittura causato la morte di persone e animali. Lo stesso notaio Loizzo aveva redatto la copia notarile del verbale dell’assemblea cittadina, che si svolse il 4 maggio 1727 con cui si deliberava di eleggere S. Irene «Protettrice e Padrona minus principale» e l’atto era inviato a Roma, con altra documentazione, alla ‘Sacra congregazione dei riti’.[18]
Nel disegno color oro, molto schematico, la città è rappresentata dal versante settentrionale, con porta Bari collocata al centro, i campanili della Cattedrale, privi delle cuspidi, che saranno inaugurati nel 1729,[19] un altro campanile a sinistra, a due piani, sormontato da una cuspide a cipolla, identificabile con quello della chiesa della SS. Trinità. Secondo la consueta iconografia, la Santa sovrasta la città e governa due terribili saette di colore rosso vivo, che s’indirizzano verso i campanili delle due chiese.
Come innanzi ho detto,con le soppressioni murattiane dei conventi (1808-’09) e dei monasteri del regno di Napoli[20] buona parte dei loro archivi, più o meno ricchi di bolle, atti di fondazione, di acquisti e vendite, libri di delibere e contabilità e altre carte, andarono dispersi. Solo alcuni, e pochi, finirono negli archivi generali e centrali dei vari ordini, per lo più romani; quasi niente rimase nei luoghi delle varie sedi, mentre altri confluirono in minima parte negli archivi diocesani, comunali e per lo più in quelli provinciali (da questi poi negli Archivi di Stato). Ciò avvenne anche per tutti e sette i conventi maschili di Altamura, di cui si salvò solo una parte della ricca biblioteca dei Riformati di Santa Maria delle Grazie con un cospicuo numero di volumi antichi, tra cui alcune cinquecentine.[21]
Una recente ricerca nell’Archivio di Stato di Bari[22] ha permesso di ritrovare, nella voce delle Carte dei Monasteri soppressi e relativa a quelli di Altamura, due interessanti raccolte, una consistente in un registro di delibere del convento dei Domenicani, ivi denominato ancora di S. Rocco, relativo agli ultimi 23 anni di vita del monastero ed un secondo volume contenente annotazioni di contratti di censuazioni, di fitto di terreni e di case, oltre che di locali del convento, relativi agli ultimi sette anni, tutte stilate prima della sua chiusura definitiva e della loro alienazione e relative agli anni 1802-1809.
Rispetto a quanto prima riferito nella storia del convento e dei suoi possedimenti,[23] essi ci permettono di avere, attraverso le varie voci concernenti gli ultimi decenni, immagini più particolareggiate della vita monastica trascorsa tra le pareti e gli ambienti del convento, con l’avvicendarsi anche di momenti di sofferenza e di occupazione esterna parziale, vissuti dagli ultimi frati regolari e conversi; a questi si accompagna una panoramica specifica e quasi completa dei vari beni, in denari, case, magazzini, botteghe, terreni seminativi, vigneti e pascoli.[24] Dei singoli documenti, dopo una prima sintetica lettura e la trascrizione di alcune parti di delibere, se ne fa per alcuni o per gruppi un commento esplicativo con conclusioni particolari o generali, rispetto a quanto già documentato nei vari capitoli e studi sul convento e la confraternita del Rosario dal 1509-’13 al 2009.Si ha così un quadro ancora vivo ed indicativo dei vari momenti del monastero, da quelli vissuti nell’arco di circa tre secoli da diverse centinaia di padri fino a quello evidenziato dai loro ultimi adepti, anche se in numero limitato.
Il volume,[25] Liber Consiliorum Venerabilis Conventus Sancti Rochi de Altamura Ordinis Praedicatorum Inceptus Anno Domini mdcclxxxv Mense Julii Tempore Prioratus Adm. Reverendi Patris Lectoris et Praedicatoris Fratris Vincentii De Grecis. rilegato in cartone morbido, con numerazione coeva per pagina (pp. 1-85), contiene deliberazioni, in numero di 109, datate dal 22 luglio 1785 al 7 settembre 1808, decise in Capitoli tenuti da frati convocati more de jure.
Il volume,[26] Delucidario di terre, parchi, case e sottani dat’in affitto dal 1802 [al 1809 ] ricoperto in pergamena, con patta di chiusura e tracce di legacci in pelle e numerazione coeva per carte (cc. 1r-70r), contiene annotazioni relative all’affitto di fondi rustici e urbani e annui censi.
Dalle annotazioni dei numerosi contratti di fitto si risale ai beni posseduti ancora dai Domenicani nel primo decennio del secolo xix: essi comprendevano fondi rustici, locali urbani, i locali del convento, con annessi magazzini (oltre alla chiesa) e capitali in denaro o censuari.
Dalle delibere sappiamo che avevano nel convento una «cassaforte», tenuta dal «borzario» e di cui poteva in parte servirsi un frate destinato alle spese. Centinaia di ducati provenivano dalle varie vendite di animali e prodotti delle masserie, e di essi alcuni erano prestati anche a terzi ad annuo censo.Ma di questi mancano dati effettivi e definitivi, eccetto le notizie delle delibere prima viste. Vi si annota solo la rendita proveniente dal contributo fisso annuo della confraternita del Rosario, dovuto per la cappella, la lampada alla Madonna e per le funzioni religiose: esso tra gli anni 1802-1807 ammonta a ducati 44 per anno.
I capitali mobili comprendevano bestiame e prodotti sia degli animali sia dei terreni, in buona parte custoditi nei «magazeni» del monastero, tenuti a chiave dai «magazzinieri e depositari», oltre a quanto era affidato in campagna ai «massari». Vi erano custodite anche la farina, macinata nel «molino del convento», e le «botti del vino», tenute nell’apposito «cellaro». Ne mancano però i rendiconti, eccetto alcuni movimenti riportati nelle precedenti delibere.
I Domenicani possedevano le due «masserie delle Rene e della Murgia di Cassano». Oltre a vari appezzamenti sparsi e le vigne. Non è possibile risalire al valore in tomoli totale, perché nelle carte sono indicati solo quelli concessi in fitto, dove mancano quelli maggiori ancora in conduzione diretta, tramite un «converso esperto e prattico di campagna». Diversi sono i terreni «seminatori», divisi in appezzamenti di varia grandezza (dai due ai quarantasette tomoli), alcuni vicini o attaccati alle masserie, altri sparsi in varie zone (di cui solo alcune appaiono non identificabili), e vicino alla città, diversi lungo la Tarantina e qualcuno anche sulle Murge:
1- tomola 6 di terre ad mensuram nella contrada di Carpentino
3- stoppella 4 di terre in contrada di S. Martino;
5- un pezzo di terra in contrada della Pagliarella o Cazzacaldara;
7- un tomola circa di terre in contrada del Gallinaro;
8- un pezzo di terre alle Lamie di Carl’Aloisio di tomola sette, stoppella 1 e un terzo;
9- un pezzo di terre di tomola 7, stoppella 7 e un terzo a Pozzorosso;
10- un pezzo di terre al Celzo;
11- un pezzo di terre a Carpentino in tomola 5 e stoppella 3;
12- un pezzo di terre di tomola 27, stoppella 7 e un terzo e sette dodicesimi al Perazzo;
13- un pezzo di terre alla Giovanna;
14- un comprensorio di terre e parchi di tomola 35 stoppella 3 e un terzo e 26 passi
16- un pezzo di terre di tomola 2 al Gallinaro;
18- un pezzo di terre in contrada di Carpentino di tomola 4 stoppello 1;
19- tomola 17 stoppella 3 e un terzo di terre seminatoriali alle lamie di Carloiso[27];
20- un pezzo di terre di tomola tre in contrada di Carpentino;
21- un pezzo di terre di tomola due a Pozzorosso;
22- un pezzo di terre al Patraro di tomola 8 stoppella 5;
23- un pezzo di terre alla costa di Frizzale;
24- tomola 47 e stoppelli 1 di Canale e Chiasce seminatoriali nella Murgia di Cassano;
28- un tomolo di terre seminatoriali nella Arena».
Tra i primi quattro, troviamo appezzamenti di due-tre ettari nella zona di Carpentino, a cinque-sei chilometri sulla via per Iesce-Laterza, uno più piccolo a S. Martino, ora dietro gli scali ferroviari ed accanto all’inizio della via per Ruvo, «pezze»[28] al Gallinaro ed alla Giovanna, zone non identificate, e due terre più grandi nella zona delle Lamie di Carloisio, il cui nome è dovuto al proprietario pro-tempore in una zona indicata come tale lungo la Tarantina e vicino a Iesce;[29] Pozzorosso e i Patrani sono vicini alla masseria principale a sud della città, dove si trovava anche il seminativo della via di Matera; tipici di zone più specifiche di cui si è persa la memoria i toponimi Cazzacaldara, Scorcia, il Celzo e il Perazzo. Infine si ritrovano i grossi appezzamenti sulle Murge indicati come «canali e chiasce».[30] Tutti i terreni indicati superano i 140 tomoli cui vanno aggiunti almeno un altro paio di centinaia non indicati, compresi quelli anche a conduzione diretta nelle due masserie.[31]
Vi sono anche indicati come affittati diversi pascoli, detti «parchi» e spesso recintati da muretti in pietra, alcuni molto piccoli e quasi dentro o molto vicini all’abitato, come del resto lo erano quelli che si dipartivano di sotto del fabbricato del convento e del suo giardino:
«2- un comprensorio di parchi detti delle Conche;
4- due parchitelli sotto S. Vito;
6- un parchitello rimpetto S. Vito;
14- un comprensorio di terre e parchi di tomola 35 stoppella 3 e un terzo e 26 passi;
17- un parchitello seminatoriale di un tomolo e mezzo circa [...] alla via che conduce a Matera»;
26- un altro parco affittato alla Congregazione del Santissimo Rosario dal 1802 al 1809, anno in cui esso fu assegnato per la Fondiaria all’esattore D. Vincenzo Castelli.
A parte quelli piccoli, intorno a S. Vito, o chiesa della Consolazione (ove ora trovasi la Villa comunale e nelle sue adiacenze) e quella all’inizio della via per Matera, tutti di pochi tomoli, degli altri non esiste un’indicazione della relativa superficie; il parco delle «Conche» è probabile che si trovasse sull’altura delle Murge e faceva parte della masseria sulla via di Cassano, come probabilmente lo era anche quello affittato nel 1802 alla confraternita e già in fase di alienazione nel 1809. Sapendo che i pascoli delle Rene erano inizialmente di 415 tomola e presupponendo che quelli dell’altra masseria erano di almeno 300-350 tomoli, necessari per una piccola azienda, i Domenicani dovevano possedere circa tomoli 750-800 di pascoli, ove era possibile far pascolare greggi di altrettante pecore (un tomolo per pecora).[32]
In detti beni rustici, mentre è compreso col n. 25 il «giardino», già pomario, «attaccato al convento» e pur facente parte di un complesso distinto e urbano, esistente fino al primo decennio del xx secolo,[33] col numero 27 indicato nell’elenco si annota: «27- una grotta a S. Tommaso».
La località, ad est dell’abitato, alla fine della discesa della collina, all’inizio ed a sinistra della via di Santeramo, prende il nome da un’antichissima chiesetta con trullo, pure antico, annesso a due vasti atri ipogei, che hanno sottostanti porte interrate, ingressi per vaste, estese e lunghe grotte, grosse cave sotterranee di tufi, usate tra i secoli xiii e xviii. Anche i Domenicani, avendo qui una grotta, erano possessori di una cava di tufi?[34]
Le case e fabbricati urbani sono piccoli complessi, in buona parte abitativi, quasi tutti siti all’interno della cinta urbana, eccetto un gruppo di locali fuori della porta di Matera (non lontani dal convento) e adibiti per laboratori di stoffe:
1- un sottano dietro S. Croce nell’inclaustro di Giannuzzi
2- una casa e sottano in contrada di S. Lucia nell’inclaustro di Priore;
3- un sottano nell’inclaustro di Magagna;
4- un sottano in contrada di S. Lucia nell’inclaustro di Priore;
5- un sottano nell’inclaustro di Mastro Luigi;
6- un sottano e soprano in contrada di S. Croce sotto l’arco del Signor Bastelli;
7- un comprensorio di sottani, ossia la Tentoria fuori la porta di Matera;
8- la terza parte dell’Osteria alla Piazza di spettanza del Convento;
9- una botteca alla Piazza».
Le case, usate come abitazioni sembrano tutte vicine, nelle contrade di S. Croce e S. Lucia, di cui quello dell’arco Bastelli conserva ancora la denominazione riportata, dietro l’ex monastero del Soccorso, a nord ed a ovest della porta di Matera, allora ancora con l’arco, mentre le altre prendono il nome dai proprietari dei claustri (spazi aperti ab antiquo lungo le strade, qualche volta anche con chiusura e arco d’ingresso). Si tratta di case molto semplici e che ancora nei primi dell’Ottocento conservano gli impianti della domus medievale,[35] con una camera (a volta o con copertura di travi ed embrici) a pianterreno, a volte anche interrotta rispetto al piano stradale o sollevata, su una sottostante cantina e fovea-pozzo al di sopra della quale vengono costruite un’altra camera, a volte due (ove si trovano la o le stanze da letto, ricoperte dalla suppinna (soffitta). I termini sottano e soprano arrivano più tardi e sono ancora attuali: nel primo c’era la cucina ed il vano di soggiorno con dietro lo spazio della stalla per la bestia o il mulo di casa (qualche volta con sopra un tavolato per le provviste e sopra i letti e spazi di ripostiglio); nel secondo o soprano, su una volta di separazione, una o due camere da letto o una cameretta di servizio o magazzino.
Ormai le mura non servivano più e già si aprivano in esse locali alla fine del secolo precedente, vicino alla porta, qui probabilmente all’inizio dell’attuale corso Umberto i; erano profondi ambienti ricavati a piano terra, rompendo la muraglia e aprendovi all’esterno i locali esistenti e già con porte nelle vie e claustri interni («comprensorio di sottani»); questi erano attaccati e anche intercomunicanti, dove appaiono installati una tintoria, con probabili annessi lavanderia e magazzini per abiti e stoffe. In precedenza erano state descritte la «bottega» (scaricatoio e punto di vendita) sulla piazza principale, accanto alla chiesa Maggiore e l’«osteria» (o taverna), in comproprietà con altri privati, riportate nelle delibere.
Si riscontrano anche annotazioni dei contratti di locazione dei magazzini ed alcune camere del convento di S. Rocco di Altamura, dopo lo smantellamento delle truppe francesi acquartierate in detto convento:[36]
«1- il magazzeno a mano sinistra quando si entra nel Portone e propriamente quello che serviva per Sala di Disciplina per li Francesi; si è affittato al magnifico Nicola Tragni dalli 15 Giugno 1807 per il 14 giugno 1808 per ducati 8,00; si è affittato a D. Pietro Viti per il 1810 per docati 7,00;
2- il magazzeno a mano sinistra quando si entra nel Portone e propriamente quello che era [il] Corpo di Guardia della Truppa Francese: si tiene in affitto dal Signor D. Ciccio Bovio dalli 15 giugno 1807 per il 14 giugno 1808 per docati sette, dico 7,00;
3- il magazzeno dentro il Chiostro col num. 1: si tiene in affitto da D. Pasquale Mari dalli 15 giugno per li 14 giugno per docati quattro e mezo, dico 4,50; si è affittato a D. Giuseppe Viti per il 1810;
4- dal 1807 al 1808 per il Convento; dalli 15 giugno 1807 per il 14 giugno 1809 si tiene in affitto dal Signor D. Cosmo Giannelli per ducati 4,50;
5- il 3° Magazeno dentro il chiostro col num. 3 si tiene in affitto da Santo Cataluddo dalli 15 giugno 1807 per li 14 giugno 1808 per ducati quattro e mezo, dico 4,50; dalli 15 giugno 1809 si affittato a mastro Filippo Insalata;
6- il 4° magazeno dentro il Chiostro col num. 4 si tiene in affitto dal Sig. D. Vincenzo Terranova dalli 16 giugno 1807 alli 14 giugno 1808 per ducati 4,50; 1808 soddisfatto per l’onorario di avvocato, 1809 soddisfatto per l’onorario di avvocato;
7- il quinto magazeno dentro il chiostro si tiene in affitto col num. 5 dal signor D. Vincenzo Cuscioli dalli 15 giugno 1807 per li 14 giugno 1808 per ducati quattro e mezo, dico 4,50; dalli 15 giugno 1808 si tiene in affitto dal Signor Canonico D. Domenico Castelli;
8- il magazeno attaccato al Refettorio col num. 7 si tiene in affitto da D. Gabriele d’Addosio dal 15 giugno 1808 per docati nove, dico 9,00;
9- il magazeno dentro il Chiostro col num. 6 si tiene in affitto dal Signor D. Vincenzo Castelli per docati sette, dico 7,00;
10- il magazeno sotto l’arcata del Quarto vecchio si tiene in affitto dal Signor D. Paolo Viti per docati sei, dico 6,00; Num. xvi;
11- l’altro magazeno sotto l’arcata del Quarto vecchio col num. xvii si tiene in affitto dal Signor D. Vincenzo Castelli per docati sette, dico 7,00, 1808; 1° in agosto e soddisfatto giugno 1808 D. 7,00; 2° in giugno e soddisfatto 1809 D. 7,00. resta per il Convento, avendo rinunciato per aver trovato il grano ingorgogliato.[37]
12- si è affittato un magazzino nel Cortile a Vito Antonio Nardone, e suoi compagni dalli 15 giugno 1809 per anni tre a dover pagare annui docati quattro;
13- si è affittata una camera del Quarto vecchio a Vit’Antonio Nardone e compagni dalli 14 giugno 1809 per anni tre e deve pagare carlini venti;
14- si è affittata una camera del convento e propriamente la seconda del Quarto vecchio, attaccata alla Chiesa al Signor D. Paolo Castelli per annui docati 4,00».
Gli affitti assicuravano un introito annuo di oltre 72 ducati, un buon aiuto per le disastrate risorse del convento. I dati delle locazioni ci aiutano ad una ricostruzione storica di buona parte del monastero, prima delle demolizioni e delle ricostruzioni del 1854-’55 e quelle successive negli adattamenti per il ‘Seminario’ e poi per le ‘Scuole pubbliche’; il chiostro appare aperto su tutti e quattro i lati, di cui si distinguono i due quarti «vecchi», del monastero primitivo.[38] Uno era quello attaccato alla chiesa e l’altro quello orientale, dove si trovava il «refettorio», qui sicuramente indicato per la prima volta (forse ove ora trovasi la grande scalinata interna del Liceo), vicino alla seconda scala interna antica (scala dell’angolo est-sud) e dove dovevano anche trovarsi a piano terra le cucine. Tutt’intorno, sotto le arcate del chiostro, si aprivano almeno 17 porte di altrettanti locali (tutti contrassegnati con numeri romani) più o meno grandi (la diversa dimensione è data indirettamente dall’entità dei fitti). Un altro magazzino è descritto nel cortile esterno, posto più in basso verso l’inizio della via di Matera. Sopra c’erano le sale dormitorio o celle, di cui due qui risultano affittate. I locali dovevano servire per usi diversi, in buona parte per la destinazione a magazzini, di cui alcuni ancora utilizzati dai frati, e qualche cittadino si alloggiò in due stanze superiori (come dormitori?). per uno dei locali a piano terra si parla anche di un avvocato: era quello nominato, un mediatore o era la sede di uno studio legale?
Anche i due ambienti, già adibiti dai Francesi a Sala di Disciplina e Corpo di Guardia, a sinistra del vano interno del portone si aprivano con porte nel chiostro e prima dell’ingresso della grande scala per il piano superiore dell’angolo nord-ovest.[39]
La determinazione di affittare nei primi dell’Ottocento tanti beni del convento, fino a pochi decenni prima gestiti e usati personalmente dai monaci, affittandoli a terzi e a cittadini altamurani, fra i quali si trovano piccoli commercianti, alcuni sacerdoti e diversi nobili (probabilmente in buona parte imprenditori di aziende agricole), è un indice storico di profonde trasformazioni sociali ed economiche della vita dell’entroterra murgiano. A queste si accompagnano anche le ragioni determinate dalle nuove innovazioni della politica della capitale ed il preannunzio delle leggi, che determineranno ben presto la soppressione degli enti conventuali e l’alienazione di tutti i loro beni materiali.[40] Ciò si verificherà anche in molte aziende private, ancora condotte in buona parte dalle principali famiglie della nobiltà:[41] indipendentemente dalle idee rivoluzionarie (serpeggianti soprattutto fra gli intellettuali e pochi sacerdoti più colti), il mondo degli operai agricoli e dei pastori incomincia a comportarsi diversamente al di fuori della massa dei poveri, ancora più estromessa e bisognosa.
I documenti dei due fascicoli domenicani altamurani avallano in molti particolari tutte queste trasformazioni,[42] che iniziate nei primi dell’Ottocento, diventeranno completamente manifeste nella seconda metà del Novecento, quando grandi nuove idee, emigrazioni ed immigrazioni, con profondi mutamenti delle classi sociali e religiose, diventeranno patrimonio della civiltà moderna. Essa trasformerà tutto: chiese, fabbricati di conventi e masserie rimasti, oltre ad essere segni e monumenti da ammirare di un passato plurisecolare, ci auguriamo che diventino pure esempi e guide per il comportamento dei giovani e degli uomini del domani.
In questa sede, data la natura della pubblicazione, si è voluto presentare solo una sintesi dei dati disponibili per questo contesto territoriale, rielaborati tenendo conto degli elementi di novità che vanno profilandosi nonché dei filoni di ricerca che si sono dischiusi.
Ma la cultura degli abitanti di Altamura non è soltanto la loro cultura, essa può rispecchiare o illuminare gli aspetti della cultura di altri corregionali o connazionali loro contemporanei, per cui un tale approfondimento si rivela senz’altro necessario per lo sviluppo di una storia totale e comparata.
Con quest’invito alla ricerca affidiamo agli studiosi l’alto compito di scegliere e definire l’impianto illustrativo più vicino ai propri interessi e più funzionale a quella divulgazione sempre più ampia e organizzata della storia di tutti noi.
Oggi, “monumento” è considerato ogni documento comprovante un intervento umano sul territorio. “Monumento” è sempre più l’opera umana, storica, di sistemazione territoriale e insediativa rispetto all’“opera d’arte” fine a se stessa. Oggi l’ambiente è considerato il bene culturale per antonomasia, perché trattasi di un bene e valore collettivo, dato dal susseguirsi e dal relazionarsi di paesaggi antropici, che tutti sono in grado di modificare e migliorare, prevenendone la rovina, non impedendone la trasformazione non nella logica della conservazione sterile, ma attraverso una regolamentazione, un monitoraggio continuo degli eventi, a patto che siano globali e lungimiranti. La competenza e l’entusiasmo di alcuni seri e preparati studiosi di storia locale, fonte di una cultura propria ed originaria del luogo in cui cresce, nella prassi del quotidiano, nella ricerca e verifica continue sulla vita e sull’operato del collettivo, nella sua specifica articolazione pluralistica e democratica, potrebbe maggiormente incontrarsi e stabilire contatti proficui con la cultura “colta” delle università e con le altre agenzie educative, perché il territorio locale può costituire il punto di partenza su cui indirizzare e focalizzare l’indagine micropedagogica e gli interventi di studio, (miranti alla stesura di una politica coordinata di recupero ambientale e di fruizione del patrimonio esistente) che partano dall’analisi della realtà e attualità del presente, garantendo una corretta strategia educativa in grado di interferire, significativamente, con i continua esistenziali del soggetto nell’arco della sua formazione permanente. In questo contesto culturale e sociale, risulta insostituibile il contributo attivo e il ruolo militante e partecipativo della dottoressa Damiana Santoro e degli altri autori dei saggi contenuti nell’opera che qui si presenta,rappresentanti uno spaccato della base comunitaria, importanti forze e risorse umane, in grado, oggi, di sensibilizzare, educare, preparare al futuro, aiutando la formazione di nuove coscienze, volte al miglioramento della qualità della vita in questa nostra complessa società postindustriale. Tale obiettivo può essere raggiunto attraverso la conoscenza consapevole, perché è attraverso di essa che si giunge alla formazione di una coscienza. Solo in tal modo ci si potrà avvicinare ad un modello di cambiamento e trasformazione continui del paesaggio, evitando gli scempi già irrimediabilmente perpetrati. Il compito dei studiosi di storia locale è di sensibilizzare l’opinione pubblica a rispettare la natura, l’ambiente e quindi anche ad avere un senso civico aggiornato e informato rispetto ai problemi attuali, e di sollecitare la classe politica diringenziale a vigilare, a controllare il rispetto delle norme, ad applicare correttamente le sanzioni previste dalla legge. È chiaro che singolarmente non riusciamo a risolvere molto sia perché si lotta contro grandi interessi sia perché nelle realtà più piccole il singolo cittadino, pur attento e sensibile, non vuole esporsi per ovvi motivi, ma è proprio in questi casi che le persone più capaci devono contribuire a pressare quelle amministrazioni che potremmo definire “più distratte o impegnate su altre attività”. Rimediare dopo tanta incuria e negligenza è impresa ardua ma dobbiamo farcela e l’unico modo è che queste trasformazioni siano sentite, condivise, partecipate, in particolare quando oltre a deturpare le nostre ricchezze paesaggistiche e naturalistiche esse danneggiano la nostra salute. In conclusione ognuno di noi deve sviluppare l’idea di bene comune, perché ognuno di noi è di fatto proprietario di un pezzo di patrimonio culturale. Dovremmo pertanto sforzarci di capitalizzare il paesaggio non l’economia che lo distrugge, perché in questo modo danneggiamo anche le generazioni future, smettiamo quindi di costruire capannoni a fianco di chiese medievali o villaggi turistici a fianco di beni storici. Il paesaggio e la sua salvaguardia sono valori per cui battersi. Dobbiamo diffondere una maggior coscienza civica e documentare il degrado del paesaggio italiano, sempre più divorato dall’incuria e dal cemento.
Questo appare il solo percorso concretamente praticabile, allo scopo di affrancare la complessità della nostra storia “locale” (meridionale, regionale, provinciale, comunale, ecc.), da difficoltà ataviche che hanno vanificato tanti sforzi finanziari, pur compiuti negli anni, e di valorizzare lo strumento primario di promozione del territorio e, delle sue risorse umane, tra le quali si annoverano profili professionali di vera eccellenza, non ancora, adeguatamente valorizzati.
Gli studiosi dell’opera di cui abbiamo attinto a piene mani per la presente relazione hanno inteso porre a disposizione della comunità, le proprie energie, perché nell’ambito della città e della regione, si indichino e si sostengano quelle iniziative, che possano dare impulso al progresso sociale, economico e civico.
Le finalità del presente studio vuole costituire il punto di partenza per una politica coordinata di recupero ambientale e di fruizione del patrimonio esistente.
Il fine è sensibilizzare i singoli cittadini al problema del rischio della scomparsa della “memoria collettiva”, perché in tal modo ne percepiscano la reale portata.
Infatti, questo non è un problema che interessa solo gli specialisti o gli addetti ai lavori, ma investe tutti noi, poiché la scomparsa della nostra memoria collettiva non ci consentirebbe più né la difesa dei nostri diritti, né di tramandare ai nostri figli quel patrimonio di cultura e di storia che, a nostra volta, abbiamo ereditato dai nostri predecessori.
[1] pietro di biase, “Le soppressioni dei monasteri in Terra di Bari nel decennio francese”, Archivio storico pugliese, xliv, 1991, p. 135-161.
[2] tommaso berloco, “Le chiese di Altamura xvi”, Altamura, 16, 1974, p. 57-172; id., “Altari lignei e marmorei nelle chiese di Altamura”, in Studi di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, a cura di Michele Paone, Galatina, Congedo, 1976, iv, p. 159-208; id., “Associazionismo laicale nella prelatura di Altamura”, in Le confraternite pugliesi in età moderna, 1, a cura di Liana Bertoldi Lenoci, Fasano, Schena, 1988, p. 333-354 e id., “Economia delle masserie della confraternita del SS. Rosario di Altamura nel xviii secolo”, in Le confraternite pugliesi in età moderna, 2, a cura di Liana Bertoldi Lenoci, Fasano, Schena, 1990, p. 515-557.
[3] Archivio della confraternita del SS. Rosario di Altamura, Contabilità, Regestum 1712-1762.
[4] giuseppe dibenedetto, a cura di, Gli archivi di Stato di Terra di Bari (Bari, Trani, Barletta), Modugno, Grafisystem, 2007, p. 471-472.
[5] lorenzo palumbo, “Enti ecclesiastici e attività creditizia in Terra di Bari nel secolo xviii”, in Studi di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, a cura di Michele Paone, Galatina, Congedo, 1976, iv, p. 209-228.
[6] Una fortunata coincidenza ha permesso alla Santoro di consultare questa platea, attualmente conservata e custodita in un archivio privato.
[7] Nelle Grazie richieste dagli altamurani a Ottavio Farnese e concesse dal suo visitatore generale Papirio Picedi il 9 gennaio 1584, si legge: «Attento che la città etiam per capitolo di sua eccellenza illustrissima tiene due fiere, una nelli 25 d’aprile e l’altra nelli 5 di agosto, le quali durano otto giorni l’una...» (Archivio biblioteca museo civico di Altamura, Libro di grazie concesse dai Farnese agli altamurani 1500-1700, “Grazie che si dommandano per l’Università, homini et communità d’Altamura all’illustrissimo signor Papirio Picedi consiliero et auditore dell’illustrissimo et eccellentissimo signore duca Ottavio Farnese principe di questa città et suo visitatore generale nel Stato del Regno di Napoli”, c. 36r).
[8] «Attento che le dette ferie sogliono anticiparnosi per alcuni giorni, per la copia de forastieri et mercadanti che vi concorrino, per il che la magnifica Università sole quasi ogn’anno fare uscire tre et quattro dì prima la bandiera per dare meglior commodità alli mercadanti...» (Ibidem, c. 36v).
[9] Donato Giannuzzi, presumibilmente nato nel 1697, figlio di mastro Nunzio Angelo e fratello minore di Nicolò, mastri impegnati nella fabrica di S. Domenico (schede 119, 124), compare per la prima volta come perito di parte del monastero di S. Rocco, in qualità di mastro insieme al fratello, nella vendita del piccolo suolo contiguo alla cappella della SS.ma Annunziata e alla taverna del convento il 25 luglio 1738 (scheda 155). É citato nelle Significatorie della chiesa del Purgatorio a Gravina nell’anno 1739-1740 riguardo al pagamento per l’esecuzione del disegno dell’altare marmoreo dell’Immacolata. Nel 1743, sempre a Gravina Giannuzzi disegna la biblioteca Finya (cfr. vincenzo cazzato, marcello fagiolo, mimma pasculli ferrara, Atlante del Barocco in Italia i, Terra di Bari e Capitanata, Roma, De Luca, 1996, p. 603). Ancora nello stesso anno sottoscrive una dichiarazione di fede relativa ai costi dei lavori di ristrutturazione di una casa sita nella contrada «della Chiavoca e d’arco di Ferrone», definendosi in tale occasione «architetto di questa città d’Altamura» (asba, Atti notarili di Altamura, Notaio Giuseppe Maria Santacroce, sk 30, prot. a. 1743, c. 94r). L’anno dopo è chiamato in qualità di «mastro fabricatore» da d. Giacomo Mercadante ad effettuare la valutazione della casa a Porta Bari, che viene acquistata dalla confraternita del SS. Rosario; egli sottoscrive la fede allegata all’atto di vendita come «tabolario delli Stati Regi di Parma» (scheda 168). Lo ritroviamo nel 1746, ancora insieme al fratello Nicolò, come perito coinvolto da d. Tommaso Manerba per la stima di una sua casa (scheda 183). Nel 1749 fu chiamato dall’abate d. Rocco Sabini come «publico muratore ed ingegnere» per progettare ed erigere, al posto «della cappelluccia dell’augustissimo Sagramento ... che dovrassi diroccare ed abbattere», il cappellone di famiglia nella chiesa di S. Agostino .Lo troviamo come testimone in alcuni contratti relativi ad opere commissionate a Crescenzio Trinchese (schede 195, 196, 197) e in un acquisto di parchi e terre seminatorie da parte del convento di S. Rocco, in qualità di «publico muratore», insieme a Angelo Scalera effettua la valutazione su una grotta e una piscina .
[10] Nel 1752, oltre all’altare marmoreo della cappella del SS. Rosario (scheda 207), era eretto anche l’altare marmoreo dedicato a S. Domenico nella cappella della famiglia Viti.
[11] tommaso berloco, “Storia della chiesa di S. Domenico, del convento dei Domenicani e della confraternita del SS. Rosario in Altamura dalle origini ai giorni nostri”, in questo volume che si presenta, p. 45, 218-220???.
[12] Oltre che l’altare della cappella del SS. Rosario, Crescenzio Trinchese aveva già realizzato in Altamura l’altare della chiesa di S. Michele Arcangelo , quello della cappella del Sacramento nella chiesa di S. Nicola dei Greci (scheda 196, 26 maggio 1749), che è stato poi forse in seguito collocato al posto dell’antico altare maggiore, l’altare della cappella Sabini nella chiesa di S. Agostino la prospettiva dell’altare della cappella di S. Giuseppe in Cattedrale 26 maggio 1749), dove aveva già scolpito le acquasantiere e la prospettiva dell’altare della chiesa di S. Michele Arcangelo . Dalla lettura di questi contratti si inferiscono elementi sufficienti ad ipotizzare che egli sia autore anche dell’altare dell’Immacolata Concezione nel convento di S. Antonio successivamente collocato nella chiesa di S. Chiara, nonché dell’altare maggiore nella chiesa del monastero di S. Maria del Soccorso, dove realizzò anche le acquasantiere, già esistenti quando gli vennero commissionate quelle per la Cattedrale nel giugno 1746. Anche l’altare dedicato a S. Domenico, nella cappella Viti della chiesa omonima, sembra doversi attribuire a Trinchese, dato il riferimento esplicitato all’interno del contratto con i monaci di S. Domenico per la realizzazione dell’altare maggiore; l’atto riguardante la commissione dell’altare da parte dei Viti non risulta rogato da notai altamurani, forse perché essi si rivolsero ad un notaio napoletano. Si riscontrano contratti stipulati con Trinchese relativi alla realizzazione di opere per l’altare nella cappella del SS. Sacramento nella chiesa matrice di Santeramo e la restauratione dell’altare marmoreo della chiesa del monastero domenicano di S. Maria in Gravina . Alcune di queste opere gli erano state già attribuite (cfr. tommaso berloco, “Altari lignei e marmorei nelle chiese di Altamura”, in Studi di storia pugliese in onore di Giuseppe Chiarelli, a cura di Michele Paone, Galatina, Congedo, 1976, iv, p. 159-208; mimma pasculli ferrara, Arte napoletana in Puglia dal xvi al xviii secolo, Fasano, Schena, 1983, p. 127-129).
[13] Un altro membro della famiglia Bottiglieri? O piuttosto si intendeva indicare Domenico Antonio Vaccaro? (cfr. tommaso berloco, “Storia della chiesa di S. Domenico, del convento dei Domenicani e della confraternita del SS. Rosario in Altamura dalle origini ai giorni nostri”, in questo volume, p. 220???).
[14] Per l’altare maggiore cfr. vincenzo cazzato, marcello fagiolo, mimma pasculli ferrara, Atlante del Barocco in Italia i, Terra di Bari e Capitanata, Roma, De Luca, 1996, p. 242-253.
[15] Per comprendere il significato di questo termine, soccorre un atto di compravendita di un fondo rustico, rogato il 3 ottobre 1639, nel quale si legge: «…cortaleam veterem, parietibus circumdatam cum certa quantitate soli, seu terreni aperti, tam ex parte supra nuncupati aira, quam suptus dicta cortaleam appellati minasciuli, seu aque pendentis…» (Archivio di Stato di Bari - asba, Atti notarili di Altamura, Notaio Carlo Antonio Pisculli, sk 7, prot. a. 1639-1640, c. 53r). Con minasciulo si intendeva indicare quindi quella particolare conformazione del terreno, una confluenza, un avvallamento, una lama, dove tendono a incanalarsi le acque piovane e in corrispondenza della quale era eventualmente possibile e conveniente costruire una piscina. La presenza di un minasciulo è sempre esplicitata nelle compravendite dell’epoca, perché rappresentava un valore di cui tener conto. Nel dialetto altamurano esiste tuttora il vocabolo menasciaule, con il significato già attestato nel Seicento, in relazione ai territori a morfologia carsica o piuttosto, prevalentemente, con il significato di ‘risorgiva’, in riferimento a terreni argillosi di formazione plio-pleistocenica. .
[16] L’indicazione si riferisce probabilmente a quella particolare tipologia di recinti a carattere temporaneo, destinati alla custodia degli armenti, realizzati con materiale vegetale di facile reperibilità; queste strutture potevano essere costruite con un’armatura di paletti di legno, cui si addossavano ramaglie e arbusti spinosi come per esempio cerasédde (Rosa canina) o perazze (Pyrus amygdaliformis). Ringrazio per queste informazioni il signor Leonardo Giordano, massaro altamurano, nato nel 1930; cfr. anche mimmo cecere, Massari e masserie: forme del lavoro e cultura materiale in Lucania, Segrate, Oros & Ganos, 1998, p. 72-76.
[17] asba, Atti notarili di Altamura, Notaio Giovanni Antonio Loizzo, sk 23, prot. a. 1727, Incipit.
[18] giuseppe zaccaria, “Clero e popolo per la proclamazione di santa Irene a patrona della città”, Altamura, 14, 1972, p. 39-53.
[19] orazio santoro, La Cattedrale di Altamura e le sue opere d’arte: notizie storiche, Altamura, Pecoraro, 1959, p. 41.
[20] pasquale di biase, “Le soppressioni dei Monasteri in Terra di Bari nel decennio Francese”, Archivio storico pugliese, xliv, 1991, pp. 135-161. L’autore ricorda che la politica di soppressione era iniziata nel 1806: mirava a privilegiare il clero secolare, partendo dall’idea di sopprimere i conventi con meno di 12 frati, ma in realtà lo scopo era quello di sanare i bilanci governativi, fortemente passivi. I beni degli ordini soppressi infatti furono venduti ed i ricavati incamerati dall’Erario come prestiti. Le vendite furono fatte a commercianti e cittadini, sia napoletani (vicini alla corona) che a possidenti locali, in rapporti diretti con i presidenti delle varie province (da noi quelle di Bari, Barletta e Altamura); gli atti erano redatti da notai, spesso corrotti o cointeressati come è documentato per il notaio altamurano Luciani per alcuni beni dei Carmelitani. Seguirono vari regi decreti tra il 1808 ed il 1809, come quello sui Carmelitani del 16 novembre 1808 o sui Francescani del 7 agosto 1808 e tra questi uno del 1809, che cacciò gli ultimi quattro padri Domenicani ed incamerò i loro numerosi beni, elencati nelle carte recentemente esaminate.
[21] Volumi con indicazioni a penna del convento di provenienza ed ora conservati nella biblioteca dell’abmc.
[22] La ricerca, con una sintesi di tutti i documenti è stata fatta e redatta da Rosanna D’Angella nei mesi di gennaio-febbraio 2010.
[23] Le notizie storiche precedenti sono quelle presentate da Tommaso Berloco nella prima parte del suddetto volume, relative alla nascita, allo sviluppo ed alla fine del convento, con esame di alcuni dei suoi possedimenti, denominato sempre di S. Rocco. Dei toponimi con cui vengono ricordati terreni e pascoli e delle masserie, alcuni ancora sono oggi esistenti, corrispondenti a quelli riportati nelle carte dell’igm nel foglio 189, relative al territorio di Altamura, disegnate nel 1949 e nel 1955-’56.
[24] Dei singoli documenti, dopo una prima sintetica lettura e la trascrizione di alcune parti di delibere, se ne fa per alcuni o per gruppi un commento esplicativo con conclusioni particolari o generali, rispetto a quanto già documentato nei vari capitoli e studi sul convento e la confraternita del Rosario dal 1509-’13 al 2009.
[25] Archivio di Stato di Bari, Monasteri soppressi, carte contabili, Altamura, b. 1, vol. 1, 1785-1808.
[26] Archivio di Stato di Bari Monasteri soppressi, carte contabili, Altamura, b. 1, vol. 9, 1802-1809.
[27] Località indicata Carl’Aloisio e Carloisio.
[28] La pezza era una vasta zona di terra fertile, squadrata ed adibita ad un esteso omogeneo seminato (dai dieci ai venti ettari).
[29] I canali erano i seminativi ricavati nell’humus dei terreni nelle valli delle Murge, mentre le chiasce sono i terreni sassosi ricavati dal dissodamento del sottile strato di terreno nelle piccole alture sullo strato pietroso di alcuni tratti pianeggianti.
[30] Infatti la più nota contrada è quella delle Lamie, indicate quasi sempre con i nomi dei vari proprietari, nella zona accanto a Carpentino, sulla collina dell’ex casale di S. Giorgio, dove nella vicina cripta del Crocifisso, sono affrescate immagini di santi domenicani del xv secolo, Santa Caterina e S. Bernardino da Siena (tali affreschi furono voluti ed influenzati dai padri di S. Domenico, che vi possedevano terreni già in antico vicini ai due omonimi casali?).
[31] Pertanto tutti i terreni coltivati dovevano avere un’estensione di circa 340-350 tomoli, pari a 130-135 ettari.
[32] Secondo antiche tradizioni e necessità di pascolo per i singoli animali, dove fino alla seconda metà del xviii secolo il convento possedeva circa 300-350 ettari di parchi.
[33] Esso aveva la superficie di due tomoli e mezzo (poco più di un ettaro): probabilmente vi erano piantati alberi (donde il termine giardino) e all’interno aveva anche un pozzo, una casupola ed una baracca per paglia (ove poi fu costruito l’edificio scolastico ‘iv novembre’ e la retrostante palestra o campo sportivo (come si è già ricordato).
[34] In analogia alle cave di pietra (petrari) a sud del convento, nei parchi, ed entrambe necessari per cavarvi materiali per le loro numerose costruzioni e i fabbricati in città, della chiesa, del convento e delle masserie.
[35] giuseppe pupillo, “Costruzioni edilizie ed espansione urbana in Altamura tra xiii e xv secolo”, Altamura, 29-30, 1987-’88.
[36] Archivio di Stato di Bari Monasteri soppressi, carte contabili, Altamura, b. 1, vol. 9, 1802-1809, cc. 58r-71r.
[37] È una situazione che si trova anche nel xviii secolo in locali adibiti a magazzini dal Carmine, presso la porta di S. Antonio: la fermentazione e l’invasione di vermi era causata da umidità dell’ambiente o per il grano già umido dal raccolto e trebbiatura, oppure perché i locali erano vecchi e umidi, come in questo, ricavato nell’ala vecchia a nord del chiostro.
[38] Come dalla veduta del 1709 del palazzo vescovile di Matera.
[39] Quella distrutta e messa in evidenza recentemente, col dipinto lungo la gradinata in una sala interna dell’abmc e nel piano superiore dagli affreschi settecenteschi (già descritti nella parte generale della storia del convento).
[40] Ciò è ben evidente nelle masserie delle confraternite del Rosario e di Santa Croce, oltre che nelle piccole conduzioni del Sacramento, ma anche in quelle della confraternita dell’Annunziata, della Fabbriceria dell’Assunta e dei conventi delle Clarisse. Documenti di fitto ottocenteschi restano anche per fitti delle masserie di S. Antonio dei Conventuali.
[41] Per quelle private, soprattutto dei nobili, il fenomeno sarà più evidente dopo il 1860 e l’unità d’Italia, quando ormai i figli di famiglia passeranno buona parte del loro tempo nella vecchia capitale del regno o emigrano in città più lontane; molti continueranno a non studiare e ad oziare, senza più intraprendere carriere militari o politiche o religiose, dissipando interi grandi e antichi patrimoni, dove i vecchi massari prenderanno il sopravvento ed a loro volta subentreranno come proprietari terrieri, anche di grosse aziende.
[42] Per i Regolari iniziati tra 1805 ed il 1808 e attuati solo pochi anni dopo (1809-1810), per i secolari, preannunciati nel 1860, attuati nel 1866-’67, con documenti e realizzazioni noti in tutti gli ambienti locali, dopo la soppressione.